Esteri

Usa 2024, Donald Trump rinviato a giudizio per la terza volta: “Ancora una e vinco di sicuro”

04
Agosto 2023
Di Giampiero Gramaglia

Ormai è diventata una scena ripetitiva, un ‘déjà vu’: per la terza volta in quattro mesi, l’ex presidente Donald Trump è comparso in un tribunale, è stato formalmente rinviato a giudizio e s’è dichiarato non colpevole dei reati di cui è accusato. E’ accaduto giovedì pomeriggio a Washington, a partire dalle ore 16.00 – in Italia, nella notte tra il 3 e il 4 agosto -: le accuse, stavolta, riguardano i tentativi del magnate di rovesciare l’esito delle elezioni del 2020, da lui perse di fronte a Joe Biden. Non ci sono state né manette né foto segnaletiche: riti già espletati.

Trump s’è candidato alla nomination repubblicana per Usa 2024 e spera di essere rieletto presidente il 5 novembre 2024. “Mi serve ancora un’incriminazione per essere sicuro di vincere”, ha scritto: rischia di essere presto soddisfatto, perché altre inchieste nei suoi confronti stanno per concludersi.

Il magnate ha raggiunto l’aula giudiziaria dov’era stato conviocato, a Washington, dal suo golf club di Bedminster, nel New Jersey, dove pioveva a dirotto. Il tribunale dista pochi isolati dalla ‘scena del crimine’, da quel Campidoglio cui migliaia di facinorosi sostenitori dell’allora presidente, da lui sobillati, diedero l’assalto il 6 gennaio 2021 per indurre il Congresso riunito in sessione plenaria a ribaltare il risultato elettorale.

Trump s’è dichiarato non colpevole di tutti i capi d’accusa, cospirazione per ingannare l’Unione, cospirazione per ostruire una procedura ufficiale, ostruzione di una procedura ufficiale e cospirazione contro il diritto del popolo di vedere il proprio voto contato. Dopo le elezioni, svoltesi il 3 novembre 2020, l’allora presidente ostacolò il passaggio dei poteri a Biden e tentò di rimanere in carica, pur sapendo – è la tesi dell’accusa – che le sue affermazioni sul voto truccato erano false.

Il magnate era chiamato per la prima volta a rispondere di accuse così rilevanti ed era in tribunale non in veste di candidato alla presidenza, ma di imputato, così come è già accaduto a un migliaio dei facinorosi che parteciparono alla commossa – centinaia le condanne già pronunciate -. Trump, però, veste i panni del perseguitato politico e non pare conscio (e tanto meno pentito) della gravità delle sue azioni.

Le conclusioni delle indagini del procuratore speciale Jack Smith

Secondo il procuratore speciale Jack Smith, che ha condotto l’indagine federale per il Ministero della Giustizia, dopo che una commissione speciale della Camera aveva individuato responsabilità di Trump nella sommossa, l’allora presidente era consapevole che le sue tesi sul voto truccato e sulle elezioni rubate erano false, erano menzogne. Smith dettaglia le trame dei consiglieri di Trump che costruivano pretesti per rovesciare l’esito del voto.

Sei persone sono formalmente incriminate insieme all’ex presidente: le loro identità non sono state rese finora pubbliche, ma uno di essi – secondo i media Usa – sarebbe il suo legale e sodale, ed ex sindaco di New York, Rudy Giuliani, molto attivo nei tentativi di negare la sconfitta di Trump e di persuadere funzionari statali e federali, l’allora vice-presidente Mike Pence e membri del Congresso ad agire contro giustizia e verità.

Un altro, sempre secondo i media Usa, sarebbe Jeffrey Clark, che prese le redini del Dipartimento della Giustizia quando il segretario in carica William Barr riconobbe che le tesi di Trump erano senza fondamento e collaborò con l’allora presidente nei suoi tentativi eversivi. Clark è divenuto, negli ultimi due anni, un’icona dei conservatori e tiene corsi su come contrastare i progressisti.

L’incriminazione, ora formalizzata, era stata pronunciata martedì 1 agosto da un Grand Jury, che aveva avallato le conclusioni di Smith. Secondo il procuratore speciale, Trump infranse diverse leggi per cercare di rimanere alla Casa Bianca nonostante avesse perso le elezioni in modo netto (306 Grandi Elettori per Biden, 232 per lui, un risultato esattamente speculare a quello del 2016 quando il magnate battè Hillary Clinton). Se il magnate sarà riconosciuto colpevole, le accuse  comportano condanne fino a vent’anni di detenzione.

Come prevedibile, la reazione di Trump è stata di negare ogni addebito e ridicolizzare le asserzioni di Smith e l’incriminazione del Grand Jury come “politicamente motivate”, un “fake indictment”, un’incriminazione bidone. La sua difesa potrebbe basarsi sulla tesi che l’allora presidente era davvero convinto che le elezioni fossero state truccate.

Guai giudiziari e sostegno popolare vanno di pari passo

Per Trump, è il terzo rinvio a giudizio in pochi mesi, dopo quello nello Stato di New York per avere comprato in nero il silenzio di una pornostar su una loro relazione sessuale – vecchia storia, di cui nulla doveva però sapersi durante la campagna 2016 – e uno, federale, in Florida, per avere sottratto alla Casa Bianca centinaia di documenti riservati e non averli poi consegnati agli Archivi Nazionali – il dossier s’è appena ispessito con un nuovo indagato -.

E i guai giudiziari non finiscono probabilmente qui: altri potrebbero aggiungersene entro fine mese in Georgia, per avere esercitato pressioni sulle autorità statali perché rovesciassero l’esito del voto nello Stato a suo favore. Altre indagini che lo riguardano, per vicende analoghe, sono in corso in Michigan e Arizona.

Nonostante tutto questo, il sostegno popolare all’ex presidente per ora non vacilla e le sue reiterate menzogne continuano a essere ‘oro colato’ per i suoi fans. I giuristi sono divisi su questioni cruciali: c’è consenso sul fatto che, se anche fosse condannato, Trump potrebbe essere candidato e pure essere eletto. Più incerte, invece, le risposte ad altri quesiti: se rieletto presidente, Trump potrebbe cercare di concedersi la grazia?, oppure chiedere ‘giustizia’ alla Corte Suprema, che attualmente ha un orientamento fortemente conservatore?, oppure tentare di fare archiviare i casi aperti? Su queste tre alternative, gli esperti di diritto danno alla Cnn risposte diverse.

Però, non siamo ancora a questo punto: i dibattiti fra aspiranti alla nomination repubblicana devono ancora cominciare – il primo sarà a Milwaukee a fine agosto – e l’inizio delle primarie è lontano 165 giorni – il 15 gennaio, nello Iowa -. Molto può ancora accadere.

Tuttavia, durante un lunch privato, in giugno, alla Casa Bianca, l’ex presidente Usa Barack Obama s’impegnò a fare tutto quanto a lui possibile per la rielezione del suo ex vice, e attuale presidente, Joe Biden, ma lo avvertì che Trump, suo probabile antagonista, sarà “un formidabile avversario”. Un cambio di accento, di cui dà notizia il Washington Post, citando “due fonti bene informate”, rispetto a inizio anno, quando i democratici sembravano ‘fare il tifo’ per la nomination di Trump, dopo che nel voto di midterm del novembre 2022 i suoi candidati s’erano rivelati battibili negli Stati in bilico, mentre i repubblicani temevano questa prospettiva e gli preparavano degli antagonisti.

Oggi, i sondaggi dicono che Trump è solidamente in testa alla corsa alla nomination repubblicana, con oltre il doppio dei consensi del governatore della Florida Ron DeSantis, che doveva insidiarlo, mentre nessuno dell’altra decina di aspiranti va in doppia cifra. E il primo sondaggio nazionale condotto dalla Sienna University per il New York Times lo mostra testa a testa con Biden, al 43% dei consensi ciascuno, con un 14% di indecisi. Tutti sanno come questi sondaggi a livello nazionale siano, però, ingannevoli negli Stati Uniti, dove non conta chi vince il voto nazionale – dal 1992, sono sempre stati i democratici, tranne che nel 2004 -, ma chi vince, magari di stretta misura, il voto negli Stati in bilico. E questo sistema avvantaggia tendenzialmente i repubblicani.

Oltretutto, il tasso di apprezzamento del presidente Biden si mantiene basso, intorno al 39%, mentre il favore per Trump sembra lievitare man mano che il magnate colleziona rinvii a giudizio. I media di destra ed i repubblicani alla Camera antepongono alle disavventure giudiziarie dell’ex presidente le magagne con la giustizia del figlio di Biden, Hunter, a processo per questioni di droga e l’acquisto di una pistola che, in quanto drogato, non poteva comprare.

La difesa di Hunter e l’accusa avevano patteggiato, ma in tribunale l’accordo non ha retto perché formulato in modo inadeguato: legali e inquirenti devono ‘rifare i compiti’, prima di tornare in aula, mentre alla Camera, dove i repubblicani sono maggioranza, lo speaker Kevin McCarthy allestisce una procedura d’impeachment contro Biden che, in carriera, avrebbe favorito e/o protetto suo figlio e i media di destrra si scandalizzano perché Hunter non va a processo. Come se le colpe dell’ex giovanotto senza arte né parte, ex imprenditore di scarso successo, siano minimamente confrontabikli con quelli contestati all’ex presidente cospiratore.

Il Daily Signal, emanazione della Heritage Foundation, un ‘think tank’ conservatore, scrive che l’incriminazione di Trump “è solo l’ultimo capitolo del patetico tentativo da parte della ‘Biden Crime Family’ di interferire” con Usa2024, paragonando la ‘persecuzione’ di Trump a comportamenti nazisti e sovietici.

Un dato significativo, che in prospettiva può pesare sui guai di Trump, la campagna e le elezioni, viene da un sondaggio Gallup, secondo cui la Corte Suprema gode, attualmente, di un tasso d’approvazione del 40%, basso in assoluto e molto basso rispetto ai suoi standard – nel XXI Secolo, il tasso di approvazione medio è stato del 51% -. A pesare, sono le sentenze espresse dalla Corte negli ultimi mesi, che hanno tutte segnato passi indietro sui fronti dei diritti di donne e minoranze, a partire dalla revoca della tutela federale sul diritto d’abortire alla bocciatura di azioni pro neri e ispanici, alle limitazioni del diritto di voto alla cancellazione del provvedimento di Biden sui debiti degli studenti. E tutto ciò mentre le rivelazioni sui comportamenti non etici di un giudice anziano, l’iper-conservatore Clarence Thomas, continuano a venire a galla. Ma i giudizi sulla Corte Suprema confermano la polarizzazione dell’Unione: il 62% dei repubblicani ne approvano le decisioni, contro solo il 17% dei democratici.

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