Cultura

Quel selfie “con vista bara” parla di noi…

27
Febbraio 2023
Di Daniele Capezzone

Da trentasei ore, accanto ai due temi dominanti sui media scritti e audiovisivi (la tragedia di Crotone e l’elezione di Elly Schlein alla guida del Pd), si è ritagliato un suo spazio un terzo episodio, di per sé piccolo ma altamente emblematico: il surreale selfie “con vista bara” richiesto e poi effettivamente scattato da uno sventurato nel pieno della camera ardente allestita in Campidoglio in memoria di Maurizio Costanzo. 

Moltissimi commentatori – chi più malinconicamente, chi più retoricamente – hanno espresso un sacrosanto sconforto per l’orrida cafonata, sintomo di una profonda inconsapevolezza da parte dello sciagurato selfista: inconsapevolezza del luogo, del momento, del senso stesso della vita e della morte. 

Inutile dire che anche chi scrive – per quel che vale – avverte un forte avvilimento: ogni persona ragionevole comprende che siamo dentro una deriva, forse non più arrestabile, che ci sta portando in territori a dir poco pericolosi.

Eppure, riflettendoci un attimo, si tratta di capire, prim’ancora di (giustamente) condannare. Quasi tre anni fa, scrissi un libretto significativamente intitolato “Likecrazia”, in cui provavo a descrivere non solo un sistema mediatico (quello tradizionale e quello social) ma soprattutto il nostro mutamento antropologico pienamente in atto. 

Qualcuno, acutamente, ha definito i cellulari e ogni device elettronico come una nostra “protesi emozionale”. Forse è il caso di invertire le cose: siamo noi ad esser divenuti “protesi umane” di quegli smartphone.

Cosa intendo dire? Non solo per i più giovani, non solo per i nativi digitali, ma anche per persone più grandi di età, il rovesciamento delle cose è tale per cui la vita “vera” non è più quella reale, ma proprio quella virtuale. Anzi, è irrefrenabile la tentazione di fare di ciò che ci sta intorno il palcoscenico e la scenografia per ciò che dobbiamo mettere su Instagram, per quello che dobbiamo condividere, per ciò che dobbiamo “whatsappare” agli amici. 

E’ così, non fate finta di negarlo. E dunque non c’è più un limite? Temo di no. E’ sacrosanto ma ormai fuori tempo massimo addolorarsi per il fatto che, anche dinanzi a situazioni estreme (un’aggressione in corso, un incidente stradale, un funerale, ecc), pochissimi sembrino in grado di frenarsi. Anzi: quanto più estremo è l’evento, tanto più diventa “necessario” riprenderlo per socializzarlo-condividerlo-whatsapparlo.

È atroce ciò che ho scritto? Sì. È terribile ciò che sto tentando di descrivere? Di nuovo sì. Ma è tutto vero? Per la terza volta, rispondo sì. E dubito di poter essere smentito.