Esteri

La pace e la diplomazia vaticana: qualche successo e molte delusioni

10
Ottobre 2022
Di Giampiero Gramaglia

C’è chi la sottovaluta a priori – e fa un errore -. Come Stalin che, a Yalta, nel febbraio del 1945, avrebbe replicato con una domanda caustica – “Quante divisioni ha il Papa?” – a chi gli suggeriva di tenere conto della visione del Vaticano nel delineare gli assetti geo-strategici del dopoguerra.

Ma c’è anche chi tende a sopravvalutarla, perché la diplomazia vaticana, quando si tratta di evitare un conflitto o di chiuderlo, negli ultimi trent’anni, dopo la fine della Guerra Fredda, ha collezionato più fallimenti che successi, almeno sui fronti che coinvolgevano Super-Potenze. Anche se c’è chi le attribuisce un ruolo nell’avere sventato l’Olocausto nucleare all’epoca della crisi dei missili a Cuba tra Usa e Urss nell’ottobre 1962.

Un indubbio suo risultato positivo è stata la mediazione tra Argentina e Cile nella disputa sul canale di Beagle, che alla fine degli Anni Settanta rischiava di degenerare in conflitto militare – i due Paesi erano entrambi sotto dittatura e la giunta argentina aveva tendenza a usare le maniere forti pure nelle vertenze internazionali, come la guerra delle Falkland avrebbe dimostrato di lì a poco -.

L’intervento del Papa, Giovanni Paolo II, e l’azione del suo emissario, il cardinale Antonio Samorè, cui oggi è intitolato un valico andino fra i due Paesi, evitarono il ricorso alle armi e seppero avviare una trattativa destinata a protrarsi per sei anni e che, forse, non avrebbe avuto un esito favorevole senza la caduta della giunta in Argentina e il ripristino della democrazia.

Il successo fu pure favorito dalla dimensione cattolica dei due Paesi. Il canale di Beagle è lo stretto, lungo 240 chilometri e largo cinque nel punto più stretto, che ‘taglia’ le isole della Terra del Fuoco, all’estremità meridionale del Sud America, segnando per un tratto il confine tra Argentina e Cile. Più volte sul punto di fallire, la mediazione si concluse nel 1984 con la firma del Trattato di Pace e Amicizia tra Cile e Argentina, che regola, tra l’altro, i diritti di navigazione, la sovranità sulle isole dell’arcipelago, la delimitazione dello Stretto di Magellano e i confini marittimi a sud di Capo Horn.

In due occasioni successive, tra il 1990 e il ’91 e poi nel 2003, sempre Giovanni Paolo II cercò d’impedire, senza riuscirci, il ricorso alle armi. Nella Guerra del Golfo, il rifiuto di Saddam Hussein di ritirarsi dal Kuwait riduceva al minimo i margini di successo, a fronte dell’autorizzazione dell’Onu all’uso della forza – andò a vuoto pure la diplomazia sovietica, alla sua ultima recita -. Lì, inoltre, il Papa doveva muoversi nel contesto mediorientale, dove l’essere il capo della Chiesa non è di per sé un punto a favore.

Più frustrante, nel 2003, il fallimento del tentativo di convincere il presidente Usa George W, Bush, un cristiano, per di più ‘rinato in Cristo’, a non invadere l’Iraq per rovesciare il regime di Saddam, col pretesto – una menzogna – delle armi di distruzione di massa (che non c’erano). A inizio marzo, fui personalmente testimone e cronista del disagio e della delusione dell’inviato papale, il cardinale Pio Laghi, inviato dal Papa a Washington per incontrare Bush e, se possibile, dissuaderlo dall’invasione. Il prelato lasciò Washington dicendo che la pace è un dono di Dio – ma la guerra restò la decisione di Bush -.

Tra Ucraina e Russia, è evidente il desiderio di Papa Francesco di essere utile e di favorire la pace: non c’è Angelus, non c’è udienza generale in cui il pontefice non inviti a pregare per la pace e non esprima la sua vicinanza al popolo ucraino. Ma i margini di manovra del Vaticano paiono ridotti, anche se, negli ultimi giorni, proprio l’escalation delle minacce crea spiragli d’apertura al negoziato, dopo che a fine marzo tutti i tavoli s’erano chiusi.

L’handicap, per il Vaticano, è che la Chiesa cattolica non ha buoni rapporti con la Russia ortodossa; e Papa Francesco non ne ha con il patriarca Kiril, da lui definito “chierichetto di Putin”. Ed è pure guardata con diffidenza dalla chiesa ortodossa ucraina e dalla gerarchia cattolica ucraina, perché chiunque parli di pace o di mediazione è immediatamente catalogato dagli ucraini come filo-russo.

Un’azione di pace del Vaticano appare in questo momento improbabile. Più facile immaginare che il Papa vada a Kiev e a Mosca per celebrare una pace, o almeno una tregua, che per annodare una trattativa. Detto e scritto, ovviamente, nella speranza che Francesco e i suoi emissari diplomatici, il cardinale Pietro Parolin, che è stato all’Assemblea generale delle Nazioni unite, e l’elemosiniere cardinale Konrad Kraiewski, che in Ucraina ha già schivato le pallottole, sappiano smentire questa previsione.