L’aumento delle tensioni nel rapporto tra UE e USA era prevedibile. È illogico chiedere all’Unione di non far rispettare le proprie leggi e di non comminare le penalità dovute, così come è stato sconfortante assistere alla vicenda dei dazi, oscillante tra le pressioni di Trump e il tentativo europeo di mantenere equilibrio e credibilità, mentre i dati sul comparto vinicolo italiano confermano un quadro tutt’altro che rassicurante. Lo stesso atteggiamento del Presidente americano nei negoziati per un percorso di pace in Ucraina, al netto di qualche sorriso di circostanza verso Zelensky — e senza dimenticare le importanti concessioni sulle «terre rare» — ha mostrato scelte orientate in modo piuttosto chiaro verso Putin, pur con qualche sforzo di salvare le apparenze davanti ai leader europei. La divergenza non riguarda solo singoli dossier, ma il metodo, la visione e la prospettiva che affondano le radici nella genesi stessa dell’elezione di Trump. Alla Convention repubblicana in cui viene incoronato candidato, delinea un programma in cui, accanto al no ad aborto, immigrazione e inflazione, emerge un plateale distacco dalla tradizionale funzione globale degli USA, prima e dopo la Guerra Fredda. Trump archivia la vocazione americana a costruire, difendere e guidare il modello democratico occidentale, ribalta il ruolo tradizionale degli Stati Uniti e l’asse euro-atlantico che ha tenuto insieme, pur tra differenze, le due sponde dell’oceano. Il suo interesse è l’America, non il ruolo dell’America nel mondo, e amici e nemici diventano semplicemente coloro che assecondano — o meno — gli interessi economici e finanziari statunitensi e dei gruppi a lui più vicini. È ciò che si è visto sui dazi, sulle terre rare cruciali per la transizione energetica e digitale, sull’intelligenza artificiale, così come nei conflitti in Medio Oriente e in Ucraina. L’avvento di Trump accelera un mutamento geopolitico e geoeconomico che non assomiglia al passato e non ha ancora una forma definita. Viviamo nell’epoca dell’incertezza, sospesi tra il vecchio assetto bipolare, un multipolarismo incompiuto e il duello tra Stati Uniti, Cina e Russia, potenze che si fronteggiano e talvolta si compattano nel tentativo di dividersi le sfere d’influenza globali, convergendo tutte in un atteggiamento di ostilità verso l’Unione Europea. Ci si chiede se stiamo andando verso una nuova Yalta, verso un nuovo conflitto o se resteremo in un limbo fatto di minacce, sorrisi, diplomazia intermittente e improvvisi rovesciamenti. In questo quadro è naturale che un’entità politica eterogenea come l’UE — dove non mancano simpatizzanti di Trump — percepisca la necessità di reagire per non scivolare nell’irrilevanza. Le tensioni aumentano e, con ogni probabilità, continueranno a crescere. Ma se l’Europa vuole davvero contare, deve assumersi le proprie responsabilità: non basta respingere le provocazioni o difendere il proprio diritto a legiferare, serve ribadire la storica amicizia transatlantica, ampliare lo spettro delle alleanze, rafforzare il dialogo strategico e riformare se stessa in modo urgente e profondo.





