Salute

La scienza come metodo o come religione?

27
Luglio 2021
Di Daniele Capezzone

Quante volte, in questi mesi, in un talk-show televisivo o radiofonico, nel momento in cui veniva data la parola a un virologo, avete sentito la frase, (purtroppo solo rarissimamente velata da una sfumatura di ironia): “Adesso sentiamo la voce della scienza”?

Tragicamente, con una sola frase di quel tenore, si fanno due danni: si accredita lo sventurato di turno di un’autorità assoluta, neanche fosse un novello Mosè disceso dal Monte Sinai con le tavole della legge, e contemporaneamente si offre un’idea monolitica, sacrale e indiscutibile della scienza. Che magari – per paradosso – sarà smentita poche ore dopo su un altro canale, al comparire di un altro televirologo di opinione diversa.

E allora è il caso di fare chiarezza su cosa si intenda per scienza. Se (com’è auspicabile) si intende un metodo, una ricerca, la meravigliosa tensione umana allo studio e alla conoscenza, allora occorre precisare che questa attività porta necessariamente con sé una (sana) impronta induttiva (e non deduttiva), un procedere per tentativi, dimostrazioni e approssimazioni successive, un continuo e inesausto “cercare”. Si tratta – letteralmente – di un cammino alla scoperta di ciò che non si conosce ancora: con tutta la prudenza di chi trova qualcosa di nuovo, lo sottopone a scrutinio critico, e senza pregiudizi lo offre alla valutazione (e alle eventuali confutazioni) di altri scienziati, di altri ricercatori.

Se invece (come purtroppo accade nel dibattito pubblico prevalente) intendiamo attribuire alla scienza l’assertività deduttiva propria – che so – della mozione conclusiva di un congresso di partito (che detta la “linea”), o addirittura l’afflato mistico di un atto di fede, l’indimostrabilità di un dogma religioso (nel quale si deve credere al di là dei limiti della mente umana), allora stiamo parlando di qualcosa di profondamente diverso. Magari rispettabile: ma assai poco “scientifico”.

Resta da capire, venendo alla specifica situazione in cui ci troviamo oggi, cosa sia più utile. In Italia, come in ogni altro paese del mondo, c’è una quota (piccola) di persone ideologicamente contrarie alla vaccinazione, i cosiddetti no-vax. La loro posizione può piacere o no (personalmente non la condivido affatto): ma si tratta comunque di soggetti che non è possibile convincere. C’è poi una quota (decisamente più ampia) di persone che non sono no-vax, ma restano scettiche, o impaurite, o portatrici di dubbi spesso anche assai razionali. Il punto è: com’è più utile rivolgersi a questi cittadini? Agitando un dogma e colpevolizzandoli se per caso non si inchinano in preghiera? Dubito molto che questo sia l’approccio più efficace. Mi parrebbe più saggio non negare i loro dubbi, offrire risposte razionali, senza nascondere le incognite e le incertezze che ogni cammino scientifico (nel senso migliore) porta con sé.