Politica

Le Olimpiadi di Tokyo. Non solo sport

09
Agosto 2021
Di Alessandro Caruso

Troppo riduttivo parlare delle Olimpiadi contemporanee solo come un evento sportivo. Quelle gare, quei podi, quegli atleti e quelle sfide hanno un valore intrinseco molto più profondo e sottile. L’esibizione sportiva si intreccia molto spesso con letture politiche, geopolitiche e propagandistiche. Anche le Olimpiadi di Tokyo 2020 hanno portato con loro un corredo di storie e fatti che indubbiamente influiranno, in modo più o meno incisivo, sulle mosse degli opinion leader e sulle scelte dei decision makers. 

 

LO IUS SOLI

Partiamo dall’Italia. Le vittorie e le medaglie hanno generato un forte entusiasmo collettivo, che ha seguito il flow innescato dalla recentissima vittoria della Nazionale di calcio agli Europei. E non sono mancati corsivi e commenti che hanno letto in questo indiscutibile trionfo un segnale dell’imminente ripartenza economica. Ma al di là dei peana, le storie di alcuni nostri atleti, prima d’ora sconosciuti ai più e adesso diventati icone nazionali, come il grande Marcell Jacobs, hanno riacceso la necessità di un dibattito serio e avveniristico sullo ius soli, sportivo e non, che tenga conto di un concetto di cittadinanza più “liquido” e internazionalista di qualunque approccio ideologico. E la vittoria olimpica di Jacobs farà molto probabilmente da sponda al presidente del Coni Giovanni Malagò per riprendere il discorso sulla necessità dello ius soli sportivo. All’indomani dello storico oro nei 100 metri dell’atleta texano-italiano, infatti, era stato proprio lui a definire “aberrante non riconoscere lo ius soli sportivo”. Gli aveva risposto il leader della Lega Matteo Salvini: “Non c’è nulla da cambiare, la legge va bene così com’è, lo ius soli non c’entra un fico secco”. Ma considerando il peso politico assunto da Malagò dopo questa memorabile “estate italiana” viene difficile pensare che la vicenda sia chiusa qui. 
E, restando a Malagò, dopo questo exploit dell’Atletica i riflettori saranno sicuramente puntati sulle prossime assemblee federali del Coni. Le storiche battaglie della Fidal (la federazione di Atletica leggera), e non solo, per chiedere una maggiore considerazione finanziaria e rappresentativa avranno adesso delle solide argomentazioni a supporto. Gli inglesi lo definirebbero un “happy problem”, ma lo strapotere del giuoco calcio è destinato a essere messo un po’ in discussione. 

 

I GIOCHI PIÙ LGBT DI SEMPRE

Così sono stati definiti, Tokyo 2020 avrà anche questo primato. Dall’Italia al Canada, passando dalla Nuova Zelanda, sono stati molti gli atleti che hanno candidamente ammesso la loro omosessualità. Lo hanno fatto con dediche o commenti, o post social. E non sempre l’effetto è stato tollerante coerentemente con la cultura sportiva di cui le Olimpiadi sono la massima manifestazione. Al punto che lo stesso Comitato olimpico internazionali, in alcuni casi, è dovuto intervenire. Come nel caso di Alexei Zhuravlyov, membro del Parlamento russo, che ha pubblicamente ironizzato sul tuffatore britannico medaglia d’oro Tom Daley, apertamente gay, e sulla sollevatrice di pesi neozelandese transgender Laurel Hubbard: “Siamo contrari a questo abominio” aveva commentato Zhuravlyov. Una posizione che ha indotto il Cio a intervenire spiegando che “la discriminazione non ha assolutamente posto ai Giochi olimpici”. E, viene naturale chiedersi, avrà posto nelle società più restìe a riconoscere i diritti Lgbt dopo l’esempio e il modello di virtù sportiva offerto da alcuni atleti Lgbt? Resta da vedere, ma certamente le Olimpiadi hanno rappresentato una enorme eco mediatica per il movimento, molto più impattante di qualsiasi gay pride, proprio perché spontanea, realistica e non organizzata. 

 

LE BATTAGLIE DI LIBERTÀ. IL CASO BIELORUSSO

Il caso bielorusso è stato uno dei più eclatanti in questo senso, anche per le conseguenze diplomatiche che ha avuto. Per chi non avesse seguito la vicenda, la ricordiamo in estrema sintesi. La velocista Krystina Tsimanouskaya da Tokyo ha denunciato via Telegram i tentativi dei dirigenti del suo paese di rimpatriarla per alcune critiche espresse su Instagram nei confronti dei capi della sua delegazione. Dopo il suo rifiuto è scattata la persecuzione. E non appena la storia è diventata virale si sono succedute le offerte di asilo politico all’atleta bielorussa, in primis dalla Polonia. Il regime di Alexander Lukashenko è noto per essere uno dei più liberticidi dell’Eurasia e l’atleta ha affermato di aver temuto il peggio e adesso da Varsavia ha fatto sapere di non voler tornare finché il suo Paese non sarà più sicuro. Questa storia ha enfatizzato ancora di più il clima di tensione che si respira in Bielorussia. Non solo, ha acutizzato una diatriba in atto già da tempo, tra la Bielorussia e la Polonia, i cui rapporti sono molto ostili. Una rivalità che ha origini lontane, ma che attualmente si riaccentua ogni qual volta la Polonia accolga oppositori politici bielorussi e, dal canto suo, il governo di Minsk inasprisca le misure coatte nei confronti della rappresentanza polacca nel suo paese (circa 300mila persone, il 3% della popolazione). Il braccio di ferro tra i due stati, tuttavia, questa volta si è concluso con un imbarazzante fendente diplomatico ai danni di Lukashenko, aggravato, peraltro, dalle dichiarazioni di Josep Borrell, Alto rappresentante della politica estera dell’Unione europea, che ha detto: “Sono rassicurato nel vedere che l’atleta Krystina Tsimanouskaya sia arrivata sana e salva in Polonia. Un’altra orgogliosa bielorussa è stata tuttavia costretta a fuggire dal proprio paese a causa delle azioni del regime e della violazione della tregua olimpica”. 

 

LA QUESTIONE DOPING

L’imbarazzo dopo lo scandalo del doping di stato in Russia ha avuto le sue conseguenze. Il Comitato olimpico è stato molto duro escludendo la Russia (non i suoi atleti, ndr) dai Giochi di Tokyo e da quelli invernali di Pechino nel 2022. E in questa edizione olimpica in effetti di doping si è parlato davvero poco. Gli unici titoli sono stati quelli volti a dileggiare, senza successo, le vittorie degli altri. Ne è stato vittima anche Jacobs, ad opera degli Usa e, in particolare del Washington Post, che avrebbe avanzato i sospetti di doping sul velocissimo atleta italiano. Non che i controlli non ci siano stati, ma evidentemente i risultati non hanno minato, fortunatamente, la validità delle competizioni. Dopo il fondo toccato nelle edizioni precedenti, questo di Tokyo è un segnale importante che fa ben sperare per il futuro.

 

LA PROPAGANDA E LO SCONTRO USA-CINA

Alla fine sono stati gli Usa a vincere il medagliere olimpico. Si sono piazzati sopra la Cina. Ma lo score è tutt’altro che una formalità per le superpotenze. Non conta che alle Olimpiadi non ci sia formalmente uno stato vincitore, quello che conta è rimarcare la propria superiorità nel prestigio, autorevolezza e preparazione. Ed è tanto vero che pochi giorni fa, quando gli Usa erano sotto alla Cina nel medagliere, il New York Times aveva comunque alterato la classifica, contando le medaglie totali e non gli ori (quelli che fanno la differenza) pur di vedersi sopra ai rivali. Non sia mai! La verità è che il medagliere olimpico, sin dalle Olimpiadi dei primi anni del Novecento, rappresenta una grande macchina propagandistica per produrre consenso e consolidare lo standing nazionale agli occhi del mondo. La storia è piena di esempi, dal Nazismo alla Guerra Fredda fino ad oggi, al confronto Usa Cina. 

…E li chiamano Giochi!

 

Alessandro Caruso

 

 

Photo Credit: Luca Pagliacci / CONI