Politica

«Noi sapevamo sognare». Intervista con Mario Segni

07
Febbraio 2022
Di Marco Cossu

Mario Segni è stato il grande protagonista della stagione referendaria italiana, il movimento di riforma istituzionale che tra il 1991 e il 1993 portò all’elezione diretta dei sindaci e all’adozione di una legge elettorale elettorale in senso uninominale e maggioritario, il “Mattarellum” – dal nome dell’attuale inquilino del Quirinale. Un “sussulto di cambiamento” nato dalla profonda crisi dei partiti e sulla presa di coscienza dell’ingovernabilità del Paese. Quelle riforme sancirono l’inizio di una nuova stagione, quella dei candidati premier e del bipolarismo, dominato dalle figure di Berlusconi e Prodi, che durerà sino all’adozione del “Porcellum”. Da lì in poi una lunga serie di presidenti del Consiglio “non eletti”. Ora, nonostante la conferma di Mattarella, il tema della legge elettorale è tornato centrale nell’agenda della politica. I tamburi battono però per il ritorno del proporzionale. Abbiamo incontrato Mario Segni per comprendere le ragioni profonde della stagione referendaria e dei suoi frutti e capire quando separa quella classe politica da quella attuale. Segni è di recente tornato in libreria con “Il colpo di Stato del 1964: La madre di tutte le fake news“.

Dopo l’elezione del Quirinale si riaffaccia lo spettro del proporzionale. Il bipolarismo italiano è ormai deflagrato?
«Rifacciamo la storia. Il passaggio al maggioritario è stato voluto e preparato dai cittadini da un referendum plebiscitario, quello del ‘93, il referendum con il numero più alto di sì della storia italiana, ma la deflagrazione di quel meccanismo è già avvenuta da un pezzo». 

Quali sono le cause di questa distruzione?
«La picconata al maggioritario avviene alla fine del 2006 con la legge definita dal suo stesso autore, il Ministro Calderoli, una “porcata”. Si tratta di una legge governativa. Il presidente del Consiglio era Silvio Berlusconi, il ministro competente era Calderoli della Lega e la spinta principale era arrivata dall’UDC di Casini. Ora la Lega e Berlusconi dicono che vogliono dare sicurezza e stabilità al Governo. Dovrebbero spiegare perché è stato distrutto quello che si era fatto, quello che per 15 anni ha permesso agli italiani di scegliere il premier e il governo. Due volte Prodi, due volte Berlusconi. Questa è stata la storia della breve parentesi del maggioritario. Tutte le leggi che sono arrivate dopo sono pasticciatissime e ora a tutta forza andiamo verso il ritorno del proporzionale. Enrico Letta mi pare sia quello che lo evochi con più forza. Bisognerebbe chiedergli come intenda dare stabilità al sistema visto che tutti i sondaggi danno tutti i partiti ad un massimo del 20%. Quanti partiti, quante maggioranze ci vogliono, che omogeneità e stabilità possono avere? Si sta facendo tutta una lunga preparazione che non ha l’obiettivo governare l’Italia, ma di aiutare i partiti, non il Paese». 

Secondo lei una legge elettorale può plasmare un sistema politico?
«Sono convinto che non basti. Un sistema politico è fatto di tante cose: tradizioni, cultura di civiltà. Ma un sistema elettorale è un pezzo essenziale del sistema politico, e influisce molto sulla stabilità e sulla forza delle istituzioni». 

In pochissimi giorni si è passati dal presidenzialismo al suo opposto. È ancora aperta la strada che porta ad esecutivi più forti, passando anche dalla trasformazione del ruolo del presidente della Repubblica?
«Non vedo nessuna possibilità in questo momento. Non la vedo finché ci sarà una classe politica che nella sua grande maggioranza, per non dire quasi totalità, pensa a traguardi esclusivamente di partito. Credo poi che questi grandi cambiamenti, come quello che avevamo portato avanti – che purtroppo è stato distrutto – avvengano in momenti particolari, spesso dopo grandi problemi e drammi. Momenti in cui si prende coscienza della grande difficoltà, è quindi si genera c’è un grande sussulto di cambiamento, riformismo. In altre parole coraggio. Oggi non vedo assolutamente all’orizzonte qualcosa di questo genere. Prima o poi però arriverà certamente questa consapevolezza, ma per un po’ di tempo ancora, credo, navigheremo in questa confusione».  

C’entra la confusione con la qualità dei leader dei partiti? La prima Repubblica ha visto politici di uno spessore maggiore rispetto a quelli attuali.
«Non c’è dubbio. I primi 15 anni della Repubblica furono un periodo eccezionale dovuto al momento eccezionale. Si uscì da un dramma e durante le tragedie si liberano le energie migliori. Dopodiché l’Italia ha imboccato, specialmente negli ultimi 20 anni, una strada di declino. Per fortuna non si tratta di una vera e propria cascata, ma solo di rapide. Abbiamo visto un progressivo peggioramento della macchina pubblica, della coscienza civile e contemporaneamente un peggioramento della situazione economica e sociale. Sono 20 anni che perdiamo un punto percentuale all’anno rispetto alla media europea».

Lei è stato protagonista della recente storia politica italiana, tanto da essere definito come l’uomo che “aveva in mano l’Italia”, poi cosa accadde? Aveva detto di no a Berlusconi?
«In tutta sincerità, non dissi mai di no perché Berlusconi non mi chiese mai niente. Non ho rifiutato una cosa che non mi è stata offerta. Io ero contrario a che Berlusconi entrasse in politica. Lo avevo detto allo stesso Berlusconi che lo sapeva, perché comprendevo il problema del conflitto d’interessi. È stato quello il frutto avvelenato della stagione che ha impedito a Berlusconi di fare quello che invece doveva e voleva anche fare: una rivoluzione liberale, il rilancio dell’economia, l’abbassamento delle tasse. Non ci riuscì. La battaglia sul conflitto di interessi, che c’era, l’ha poi combattuta con mezzi deprecabili, come quello delle leggi ad personam e tutta questo ha paralizzato l’azione del governo». 

Cosa manca alla classe politica di oggi? C’entra la cultura? Voi ad esempio avete un grado di istruzione, eravate docenti, giuristi, uomini di cultura…
«Io non credo sia un problema di cultura. Certo, ogni tanto si vedono episodi piuttosto singolari, anche in altri campi. Credo invece che sia una classe politica che non abbia neanche più voglia di sognare. Ogni tanto bisogna sognare, puntare alto, programmare, rischiare. Invece la politica viene concepita come una mediocre gestione quotidiana». 

Chi salva?
«In questo momento bisogna essere grati a Draghi, questo è un dato oggettivo. Per quello che ha fatto da governatore della BCE e da presidente del Consiglio. Bisogna essere rispettosi verso Mattarella, uomo coscienzioso. Però tutto il sistema, il suo meccanismo, il Parlamento non funziona. Si sta guastando il costume e si stanno guastando le regole. Le faccio un esempio: si fa sempre più ricorso alle cosiddette leggi omnibus con articoli di 100 pagine, contenenti 200 commi. Così vengono fatte le finanziarie e le varie leggi. Questo va contro la Costituzione. E rappresenta la fine del Parlamento».

Il Parlamento si è quindi visto spogliato delle sue prerogative.
«Sì. Devo dire che questo barbaro riformismo degli ultimi 20 anni e queste leggi elettorali hanno peggiorato le cose. Pensi ad un questione importantissima, quella delle liste bloccate, dei parlamentari nominati e non più eletti. Abbiamo pezzi enormi di Parlamento nominati con quel meccanismo. È vergognoso».

Distruggendo il rapporto tra rappresentati e territorio…
«Tant’è che i cittadini non sanno neanche più chi sono i loro deputati. Mentre – osservi la differenza – i cittadini sanno bene chi è il loro Sindaco. Il Sindaco lo hanno eletto loro direttamente, è frutto di confronto, dibattito, battaglie. Con i sindaci siamo riusciti a ottenere la nostra prima conquista». 

Su questo ha dei grandi meriti.
«Ho dedicato a questo un bel pezzo della mia vita».

Questo glielo riconoscono tutti…
«Me lo riconoscono, però le riforme le hanno distrutte». 

L’Italia è condannata ad uno stato di ingovernabilità perenne? Non ritiene che il ruolo del presidente della Repubblica sia sovradimensionato rispetto ai suoi poteri costituzionali?
«Certo. Ma è chiaro, quando c’è un vuoto qualcuno deve riempirlo. Non dobbiamo dimenticare che siamo, non da oggi, in una fase di grave ingovernabilità e il Presidente della Repubblica tende ad aumentare i suoi poteri. A questo si aggiunge un Presidente del Consiglio che non è stato eletto dai cittadini ma è stato nominato come una specie di commissario. Sia ben chiaro, questo doveva essere fatto, un malato lo si deve curare. Ma non siamo in una fase normale della vita politica. Dalle ultime elezioni non lo siamo più».

Forse anche da prima con Mario Monti.
«Verissimo, da lì è scoppiato tutto. Poi le ultime elezioni hanno peggiorato le cose. Una crisi continua, questi governi strampalati, i governi Conte. La malattia è stata tanto grave da dover chiamare un medico speciale che ha un nome e un cognome:  Mario  Draghi». 

Riduttivo chiamare tecnico chi è stato stato a capo della Banca Centrale europea.
«Assolutamente. Una fortuna per l’Italia avere avuto un commissario di questo livello. E questo lo sappiamo bene. Però l’arrivo di Draghi non è la causa, è la conseguenza della debolezza della politica».

A questo ci si è arrivati perché hanno soffiato i venti dell’antipolitica?
«Hanno soffiato forte i venti dell’antipolitica».

L’Italia per cinque anni è stata un paese tripolare.
«Sì, però il cammino del tripolarismo ha portato a sua volta ad ulteriore frazionamento. I cinque stelle che si spaccano a loro volta, così come le altre forze politiche. La tendenza continua verso lo sgretolamento, non ci siamo fermati ai tre poli. La frammentazione la si è vista nell’ultima elezione del Presidente della Repubblica».  

Che figura ha fatto la classe politica italiana in questa occasione?
«Ha dimostrato purtroppo quello che si sapeva, che il Paese è ormai ingovernabile. Con questo sistema costituzionale l’Italia non è governabile. Un commissario per il momento ci salva, ma di cosa succederà dopo le elezioni non ne ho la più pallida idea. Non vedo né chiarezza né prospettive».

Se si potessero fare delle riforme in quali direzione bisognerebbe andare?
«Io andrei verso un presidenzialismo, penserei al sistema francese».

Non ha paura della polarizzazione del sistema?
«Ci sarà ma ne ho meno paura che del vuoto di potere che provoca la crisi di oggi». 

Gli italiani sembrano però rassicurati dalla figura di un monarca repubblicano…
«Gli italiani cercano disperatamente delle cose migliori, abbiamo vissuto crisi, problemi economici. Accetterebbero di buon grado un sistema più chiaro e più stabile. Però ci vuole una classe politica che lo spinga. Non vedo protagonisti o qualcosa di simile a quello che facemmo noi 30 anni fa con il Referendum». 

Cosa avevate più di loro?
«Noi sognavamo. Abbiamo vissuto poi un periodo particolare. Era crollato il Muro di Berlino, era un mondo che sognava a occhi aperti, in cui i vecchi steccati cadevano, poi ovviamente vengono le delusioni ma sono stati degli anni bellissimi. Gli anni in cui si è aperta una nuova prospettiva. Dopo non dobbiamo dimenticare che abbiamo avuto quattro elezioni in cui c’è stato un meccanismo maggioritario in cui gli italiani hanno votato per il loro governo. È quindi andato a votare chi aveva più voti. Due volte le ha vinte Berlusconi, due volte le ha vinte Prodi». 

Governi più duraturi ma non sempre…
«Il meccanismo era incompleto, non tutto è andato liscio. Ma finalmente chi decideva era il cittadino. L’obiettivo era quello. La democrazia governante. Quella in cui chi vince governa, sino alla prossime elezioni, dove gli elettori erano liberi di cacciarli. Il loro potere è quello. È fondamentale che ci sia trasparenza in questo».

La città di Sassari ha allevato grandi personalità politiche, mi riferisco a suo padre, Berlinguer, Cossiga, lei, Pisanu. Cosa aveva questa città di speciale?
«Parisi, è stato l’ultimo. Questo francamente bisogna studiarlo e chiederlo ad un sociologo. Certo non possiamo pretendere di dare un Presidente della Repubblica ogni 30 anni, ma la crisi è stata veloce e profonda. Sassari aveva dato all’Italia una classe politica con caratteristiche di grande rilievo, di grande valore culturale e di grande onestà. Pensi a questo particolare che spesso dimentichiamo, nessuno di questi uomini è stato toccato da un’accusa o da uno scandalo. Dobbiamo essere orgogliosi.». 

Una classe politica con cui ha condiviso lo stesso ambiente
«Per quanto riguarda i Sassaresi, noi siamo tutti nati nel raggio di qualche centinaio di metri. Frequentavamo la stessa parrocchia, quella di Monsignor Giovanni Masia, il parroco di San Giuseppe è stato parroco di tutte queste persone che lei ha ricordato. Tutte. Non ce n’è stata una che non fosse parrocchiana di San Giuseppe. Era anche un pezzo della Sassari universitaria. Tra di noi avevamo un rapporto umanamente molto bello. Nonostante le differenze politiche, nette, chiare e le battaglie aspre. Il Partito Comunista era nostro avversario. Eravamo avversari con grande rispetto della politica e delle regole, un rapporto di stima reciproca che non è mai stato toccato». 

Ha un ricordo particolare?
«Tanti. Ricordo con curiosità un fatto di quando ero ragazzino: alcune cartoline che ci mandava da Mosca Enrico Berlinguer, allora segretario dell’Internazionale Comunista. Ricordo i suoi “cari saluti”. I Berlinguer come noi facevano le vacanze a Stintino. Mentre Cossiga a Stintino non veniva mai. 

Lei di recente ha scritto un libro, “Il colpo di stato del 1964”, dove ha fatto luce su una pagina poco chiara della storia italiana.
«Se lo legge ne sarò lieto. Credo di aver illuminato un periodo che una campagna, una gigantesca fake news, ha di fatto oscurato. Una campagna stampa portata avanti dall’Espresso da un grande giornalista, Eugenio Scalfari, che per decenni ha vinto nell’opinione pubblica, nei media, nella storiografia italiana. Aveva dipinto mio padre, altre personalità e gran parte della Democrazia Cristiana come collusi con ipotesi golpiste, accuse gravissime, del tutto e completamente infondate». 

Che motivi aveva Scalfari per farlo?
«Questo non posso saperlo. Però, e questo è un fatto oggettivo, su questa campagna ha costruito la sua carriera giornalistica e mediatica. Da tutto questo è nata Repubblica». 

Com’era essere figli di un presidente della Repubblica?
«A vent’anni preferiresti non esserlo. Si vuole essere liberi e tranquilli. Vorresti non avere situazioni che ti portano ad essere al centro dell’attenzione. Nonostante questo a mio padre non è mai venuta meno la sua affettuosità e il suo affetto paterno. Un padre affettuosissimo».

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