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Washington volta pagina, Bruxelles resta indietro

21
Dicembre 2025
Di Gianni Pittella

La nuova National Security Strategy (NSS) degli Stati Uniti segna una svolta profonda negli equilibri dell’Occidente: meno multilateralismo, più accordi bilaterali, un riavvicinamento pragmatico alla Russia e un sostegno all’Ucraina sempre più condizionato. In questo nuovo disegno, l’Unione Europea non è più il fulcro della sicurezza transatlantica, ma un attore chiamato a cavarsela da solo. Mentre gli Stati Uniti ricalibrano le proprie priorità globali e riaprono il dialogo con Mosca, Bruxelles si trova davanti a una scelta che non può più rinviare: diventare un soggetto strategico autonomo o accettare una progressiva marginalizzazione.
La NSS pubblicata dall’amministrazione Trump non è un semplice documento programmatico, ma un segnale politico. La visione che emerge è quella di un mondo multipolare gestito attraverso rapporti di forza, in cui le alleanze non sono più vincoli strutturali ma strumenti flessibili, utili solo finché servono agli interessi nazionali americani.
In questo quadro, l’Unione Europea appare sempre meno centrale. Pur non essendo esplicitamente messa in discussione, viene descritta come un’entità politicamente frammentata, lenta nel processo decisionale e incapace di assumersi un ruolo di primo piano nella sicurezza del continente. Washington guarda con maggiore interesse ai singoli Stati membri, privilegiando relazioni bilaterali e indebolendo ulteriormente il ruolo delle istituzioni europee. Il messaggio implicito è chiaro: l’Europa deve smettere di considerare gli Stati Uniti come garante automatico della propria sicurezza.
La NSS non sancisce la fine dell’alleanza atlantica, ma ne ridefinisce i presupposti. La NATO resta formalmente centrale, ma perde il carattere politico e simbolico che aveva assunto negli ultimi decenni. Il principio della difesa collettiva non viene negato, ma non è più accompagnato da una garanzia incondizionata di intervento americano.
Per molti governi europei, soprattutto nell’Europa centro-orientale, questo rappresenta un cambio di paradigma. La sicurezza del continente non è più un interesse vitale automatico per Washington, ma una variabile da valutare caso per caso. Il rapporto transatlantico assume così una dimensione sempre più bilaterale, fondata sulla convergenza momentanea degli interessi piuttosto che su un’idea condivisa di ordine internazionale.
Uno degli aspetti più controversi è l’apertura a un possibile reset delle relazioni tra Stati Uniti e Russia. Mosca non viene più trattata esclusivamente come una minaccia sistemica, ma come una potenza con cui è necessario ristabilire una forma di stabilità strategica. Il riavvicinamento non equivale a una riabilitazione del Cremlino, ma segnala la volontà americana di ridurre il conflitto diretto e di normalizzare il dialogo su sicurezza, deterrenza e crisi regionali. Per l’Europa, però, questo approccio solleva interrogativi profondi. Il timore è che Washington e Mosca tornino a dialogare secondo logiche da “grandi potenze”, lasciando l’UE ai margini delle decisioni che riguardano direttamente la sua sicurezza.
Il conflitto ucraino è il punto in cui queste dinamiche convergono. Gli Stati Uniti continuano a sostenere Kiev, ma il sostegno appare sempre più condizionato a una prospettiva negoziale. La guerra, da simbolo della resistenza all’aggressione russa, viene riletta come un dossier da gestire, contenere e possibilmente chiudere.
Le pressioni su Kiev aumentano. L’ipotesi di un compromesso territoriale, in particolare sul Donbass, torna al centro del dibattito diplomatico. Per il presidente Zelensky, la situazione è sempre più complessa: resistere significa rischiare l’isolamento; accettare un accordo significa affrontare un costo politico e simbolico enorme.
L’Europa, divisa tra il sostegno all’integrità territoriale ucraina e il timore di un conflitto prolungato, fatica a parlare con una sola voce.
La fragilità del quadro politico internazionale si riflette anche nel linguaggio utilizzato da attori statali di primo piano. Di recente, il presidente russo Vladimir Putin ha attaccato i leader europei con termini sprezzanti, definendoli “porcellini approfittatori” e accusandoli di essersi accodati alla politica della precedente amministrazione statunitense nella speranza di trarre vantaggio dallo scontro con la Russia. Tale retorica denota non solo un inasprimento del linguaggio diplomatico, ma anche una crescente strumentalizzazione delle emozioni e delle immagini denigratorie nella comunicazione politica internazionale, con evidenti rischi di polarizzazione e deterioramento del dialogo tra le capitali europee e Mosca.
Di fronte a una Washington più distante e a una Russia di nuovo interlocutrice, l’Unione Europea prova a reagire. Il sostegno politico e finanziario all’Ucraina resta una priorità, ma cresce la consapevolezza che non sia sufficiente.
Negli ultimi mesi si è intensificato il dibattito sull’autonomia strategica: rafforzamento dell’industria della difesa, coordinamento degli investimenti militari, ipotesi di missioni europee di sicurezza e utilizzo degli asset russi congelati. Tuttavia, le divisioni interne tra Stati membri, le diverse percezioni della minaccia russa e i limiti strutturali dell’UE rallentano una risposta efficace.
Nell’ultimo Consiglio europeo di dicembre 2025, i leader dell’UE hanno trovato un accordo per fornire a Kiev un pacchetto di sostegno finanziario pari a 90 miliardi di euro tramite un prestito comune per il biennio 2026-27, dopo il fallimento dell’intesa sull’uso immediato degli asset russi congelati per finanziare l’assistenza. La decisione è stata adottata nonostante l’opposizione di alcuni Paesi membri, evidenziando le persistenti tensioni interne sull’approccio da seguire.
L’Europa si muove, ma lo fa con fatica, in un contesto in cui il tempo gioca contro.