Food

Quando la politica fa propaganda con il cibo

20
Settembre 2023
Di Marco Cossu

Quella tra cibo e politica è un’associazione naturale che si attiva per descrivere presunte ruberie e vantaggi della casta. La più scontata è quella del “magna-magna”, sintesi estrema delle pratiche di governo decantata anche nei consessi più abbottonati. La letteratura è ricca di riferimenti del genere (tutti in negativo) per rappresentare il vizio più assoluto – superiore al sesso, di carne siamo fatti – perché al cibo di “no!” lo si potrebbe dire. 

La tavola in politica è l’alfa e l’omega, il luogo in cui insieme alle portate si annusano le persone che le mangiano, si pesano i cuori e i caratteri come si fa con il tartufo. Se va bene l’accordo è fatto, ed è l’inizio, oppure la fine, delle buone intenzioni ad esempio: «tutte le rivoluzioni cominciano per strada e finiscono a tavola», per scomodare Longanesi che voleva spiegare a suo modo l’istituzionalizzazione/corruzione del potere. Ma la gola è un vizio che riguarda l’umanità tutta quanta, non solo la politica. Gli onorevoli di oggi lo sanno benissimo e prima di loro i frequentanti dei fori, i conti, i principi, i marchesi, i sussurratori del potere. Gli spin doctor sono solo gli ultimi. Con il cibo la politica si fà, perché il cibo evoca, attrae, seduce, corrompe. E con il cibo si comunica. Ma cosa? Di tutto. 

È rappresentazione del potere. Il banchetto di corte cos’altro non era se non la dimostrazione di quanto un sovrano può permettersi? Più ricercate erano le pietanze, più rare le spezie, maggiore era il prestigio e la ricchezza del regnante. Così negli stati paternalisti, dove la distribuzione di alimenti voleva marcare la generosità e la magnanimità del potente. Il cibo è trasmissione di valori. Con il cibo si manifesta l’appartenenza ad una comunità, nazionale, religiosa, politica. Il piatto di pasta al pomodoro diventa immediatamente simbolo di italianità nel quale riconoscersi. Mistificazione del potere. Mangio come voi, sono uno di voi, anche se appartengo alla classe di governo. L’ho cucinata io perché anche io mangio a casa, come le vostre le mie mani odorano di aglio e di cipolla. 

Con la sua forza comunicativa, il cibo diventa uno straordinario strumento di propaganda. Lo si espone nei banchetti diplomatici, lo si evoca su un palco, lo si posta sui social. In pochi sanno resistere. In Italia il leader che più ha fatto leva sul cibo è Matteo Salvini che con quella che fu “la Bestia” ne ha fatto un potentissimo strumento di disintermediazione (e consenso). Grassi, pesanti o genuini, i cibi sono stati utilizzati – incrociando immancabilmente i trend social che volevano i food influencer tra i più capaci a fare interazioni – per comunicare vicinanza alle abitudini degli italiani, per marcare territori durante le visite elettorali, per manifestare l’appartenenza ad una comunità nazionale che si riconosce in piatti che sono prima di tutti simboli – e lo switch dalla polenta ad altre ricette è fondamentale per un leader che vuole espandersi su tutto il territorio nazionale. Il cibo traccia un solco, perché qui ci siamo noi con le nostre tradizioni alimentari (che sono spesso dogmi), lì ci sono loro, i mixologi, le cavallette e le direttive europee che minacciano la filiera punendo i nostri manicaretti con il nustriscore. Cibo che diventa quindi ideologia. Giù le mani quindi dal vino, giù le mani quindi dalla Nutella. Poi per il Capitano è arrivata la dieta e per le calorie la pacchia è finita (come per i post sui social a tema alimentare). Sul cibo che incarna la Patria ce ne ha dato uno dei tantissimi esempi anche il presidente del Senato La Russa, che nella querelle sulla farina di grillo durante l’evento di Fratelli d’Italia per le elezioni Regionali in Lombardia è entrato nel merito spiegando alle signore come preparare una buona pasta alla norma. I patrioti d’altronde i grilli non li vogliono mangiare. 

Se la propaganda con il cibo è almeno in Italia principalmente di destra, è giusto ricordare che a sdoganarla per la prima volta fu la sinistra. Nella puntata di “Porta a Porta” del 13 ottobre del 1997 appariva nella terza camera del Paese un insolito Massimo D’Alema intento a cucinare un risotto. La preparazione di quel soffritto era – almeno per lo spin doctor – un modo per rendere meno spigolosa l’immagine di un leader che aveva necessità di creare empatia con l’elettorato. Quel servizio fu sparato nell’etere nel bel mezzo del dibattito della riforma costituzionale, in pieno clima Bicamerale, commissione presieduta dallo stesso D’Alema. Alla sinistra non piacque, ma quel mix tra cibo e politica, quell’umano-troppo-umano, segnò in modo definitivo la direzione di un’epoca (inaugurata dal Cavaliere) dove intrattenimento e politica sono mischiati nello stesso padellone. E propaganda diventa, per rimanere in ambito progressista, anche la negazione del cibo, come gli scioperi della fame di Marco Pannella a sostegno delle cause radicali.

Ma con il cibo, lo sappiamo anche quando litighiamo a tavola, si fa la pace. Lo stesso è accaduto davanti a Montecitorio, i litiganti erano Alemanno e Bossi. Il banchetto voleva comunicare la fine delle ostilità tra leghisti e romani. Da un lato la cucina romana, dall’altro quella lombarda. Si poteva bere sia vino dei Castelli sia Lambrusco, mangiare sia pasta con la coda alla vaccinara sia polenta. Celebre la foto del Senatur (non elegantissima) mentre mangiava i rigatoni grondanti di sugo. Da quel giorno cambiarono le regole di ingaggio dei fotografi e i politici non vollero più sentirne di essere ritratti mentre addentavano qualcosa, se non naturalmente quelle autoprodotte.  

Ci sono poi i politici che influenzano i menù cavalcando le tendenze. Berlusconi per aprire un varco nella resistenza dell’elettorato animalista, convinto da Michela Vittoria Brambilla, decise di salvare degli agnellini dalla strage di Pasqua e si fece ritrarre mentre ne abbracciava uno. E invece mangiateli! dice in conferenza stampa il presidente della regione Veneto Zaia mostrando i granchi blu, specie aliena e invasiva che minaccia gli allevamenti di vongole dell’Adriatico. Qui il tema travalica nell’ambito della sicurezza alimentare, nel mito del buon sovrano che si prende cura della qualità dell’alimentazione del suo popolo.

Ma come con gli spaghetti, noi italiani non ci siamo inventati nulla in termini di propaganda con il cibo (ora come elemento rassicurante). Il presidente Obama, dopo l’allarme lanciato dell’Oms sulle carni lavorate e le carne rosse, a bordo dell’Air Force decise di mangiare un bell’hamburger di manzo con salsa al peperoncino, formaggio e bacon (tagliato spesso); come lui Fumio Kishida, primo ministro del Giappone, che si è fatto invece riprendere mentre mangia del pesce crudo, a suoi dire “molto buono”, pescato nell’area di Fukushima dopo lo sversamento dell’acqua di raffreddamento.

Il cibo comunque non esaurisce la sua funzionane nella politichella nazionale ma entra a pieno titolo in questioni serissime come le relazioni internazionali. La chiamano gastrodiplomazia, branca golosa della diplomazia culturale, il soft power condotto con altri mezzi. È lo strumento più subdolo di seduzione, è la cena di Stato, il “Menù del Quirinale”. Destinato agli ospiti più illustri, il menù presidenziale prova a raccontare chi siamo, o meglio chi vorremmo essere, provando a convincere con la gola perché sia necessario fare affari con una nazione come la nostra. Ma lo si sa da tempo “de gustibus non est disputandum” e qualcuno potrebbe andarsene via storcendo il naso, come di recente ha fatto il presidente brasiliano Lula che esprimendosi sugli inviti a Quirinale e all’Eliseo si è lamentato delle piccole porzioni al piatto: «tutto è molto sofisticato, e talvolta non capisci neppure di cosa si tratta». Lula ha poi aggiunto di preferire i vassoi in cui è possibile scegliere e avere quel che desideri, come accade nella cucina brasiliana che sembra preferire. Anche questa propaganda, che gli amanti delle categorizzazioni chiamano “gastronazionalismo”. Ma come ci insegna Camilleri, politica o meno, anche seduti a tavola sempre di cibo parliamo e «mangiarono parlando di mangiare. Come sempre succede».