Esteri

Medioriente, piano di pace in panne, recrudescenza dell’offensiva russa in Ucraina

12
Novembre 2025
Di Giampiero Gramaglia

A un mese dai tronfi panegirici del vertice di Sharm-el-Sheikh e dalle speranze di pace suscitate dalla sospensione delle ostilità nella Striscia di Gaza e dalla liberazione di tutti i 20 ostaggi ancora vivi in cambio della scarcerazione di quasi 2000 detenuti palestinesi, la tregua tiene, ma resta fragilissima, rotta quasi ogni giorno da incidenti e scaramucce; e la tragedia umanitaria prosegue.

Amnesty International, in un suo recente appello, riferisce di «ospedali distrutti, aiuti bloccati, famiglie senza casa né cibo. La popolazione civile continua a vivere in uno stato di emergenza permanente, segnato da morte e devastazione».

Intanto, Israele accentua l’involuzione della sua democrazia e s’avvia ad approvare leggi viziate da discriminazioni razziali – la pena di morte per l’arabo che uccide un ebreo e non viceversa – e repressive della libertà di stampa e di espressione – la chiusura di media che formulino critiche all’operato del governo -. E le violenze omicide dei coloni in CisGiordania s’intensificano, praticamente impunite.

Lo stato di apatia in cui sembra piombata l’Amministrazione Trump sui fronti di guerra principali del Pianeta favorisce una recrudescenza del conflitto in Ucraina, dove la tattica degli Usa sembra quella d’aspettare che la Russia travolga le difese ucraine. E Washington, intanto, crea conflitti dove non ce n’erano, come nei Caraibi, con il rafforzamento dei dispositivi militari in funzione anti-Venezuela, contro il regime del presidente Nicolas Maduro, e con gli attacchi proditori e senza base legale a imbarcazioni di presunti narco-trafficanti. Le scelte degli Usa inducono l’intelligence britannica a sospendere la condivisione d’informazioni con quella statunitense, onde evitare complicità in azioni criminali.

Non va la fase 2, Israele s’avvita in contraddizioni
Il piano di pace di Trump è in stallo: la fase 1, concordata a inizio ottobre e sancita il 13 ottobre, è ogni giorno messa a repentaglio; la fase 2 non decolla, nonostante le ripetute missioni in Israele dei negoziatori statunitensi, l’inviato speciale Steve Witkoff e il ‘primo genero’ Jared Kushner.

Sul terreno, restano da sciogliere i nodi della restituzione degli ultimi quattro corpi di ostaggi, che Hamas starebbe cercando a Gaza City con l’ausilio della Croce Rossa, e della sorte dei miliziani tuttora bloccati nei tunnel di Rafah – sarebbero tra 150 e 200 –, che non vogliono deporre le armi senza un salvacondotto per l’esilio – dove, non si sa –. Lo staff di Netanyahu smentisce che ci sia già un impegno a lasciarli andare.

Secondo i media israeliani, gli Stati Uniti progettano l’allestimento di una grande base militare nel sud di Israele, in prossimità del confine con la Striscia, dopo che il Centro di monitoraggio del cessate-il-fuoco di Kiryat Gat, a guida Usa, sta già acquisendo la supervisione dell’ingresso degli aiuti a Gaza.

La nuova base costerebbe circa 500 milioni di dollari e dovrebbe ospitare le migliaia di militari – s’ipotizza 20.000 in tutto – della Forza internazionale di stabilizzazione prevista dal piano di pace di Trump, la cui composizione, però, deve essere definita e che deve ancora essere costituita.

I Paesi musulmani che si sono detti disposti a fornire truppe vogliono un mandato del Consiglio di Sicurezza dell’Onu – ci si sta lavorando al Palazzo di Vetro di New York –. Altri Paesi restano in attesa di conoscere obiettivi della Forza e regole di ingaggio: per l’Italia, si parla di compiti d’addestramento di unità di sicurezza palestinesi affidati ai carabinieri.

Secondo Politico, nell’Amministrazione Trump serpeggia il timore che l’accordo tra Israele e Hamas possa fallire proprio a causa della difficoltà di attuazione di molte sue parti fondamentali, tra cui la futura Forza. La Reuters cita fonti europee e americane, secondo le quali c’è il rischio che, senza un forte impegno degli Stati Uniti, la Linea Gialla, che dovrebbe segnare la prima fase del ritiro dalla Striscia dei militari israeliani, diventi un confine permanente tra l’area sotto controllo israeliano e quella palestinese, spaccando di fatto la Striscia in due «sine die».

I progetti di ricostruzione sembrano limitarsi, per il momento, alla zona controllata da Israele dove, scrive Atlantic, l’Amministrazione Trump vuole realizzare una prima «Comunità sicura alternativa», un progetto pilota con un centro medico, una scuola e «alloggi temporanei per 25 mila» palestinesi senza legami con Hamas. Gli aspiranti residenti saranno vagliati dai servizi segreti israeliani e chi sarà ammesso non potrà tornare indietro: un tassello in più della divisione della Striscia.

Suscita critiche il disegno di legge approvato in prima lettura dalla Knesset che prevede la pena di morte per i terroristi che uccidono israeliani. Hamas lo denuncia come «razzista e criminale»: «un tentativo di legittimare l’uccisione di massa organizzata dei palestinesi». Obiettivo dichiarato dell’ultra-destra messianica, all’origine dell’iniziativa, è impedire futuri scambi di prigionieri grazie ai quali condannati per terrorismo «tornano in libertà e a uccidere». Chi si oppone contesta, invece, una norma valida solo per gli arabi e non per gli ebrei. E fa discutere il video del ministro per la Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir, che celebra il voto offrendo baklava, tipici dolci mediterranei, ai deputati in aula.

Altre misure che confermano la deriva repressiva della democrazia israeliana sono la possibilità di chiudere uffici di corrispondenza di media considerati ostili a Israele (fra cui la tv al Jazeera) e la rimozione da YouTube di centinaia di video che documentano le violenze di coloni e militari sui palestinesi in Cisgiordania.

Ucraina, il Generale Inverno è, come sempre, russo
Sul fronte ucraino, l’impasse diplomatica che dura da quasi un mese si traduce in un vantaggio sul terreno per i russi, all’offensiva sulla linea del fronte e che, dal cielo, con missili e droni, colpiscono a ripetizione le infrastrutture energetiche ucraine, acuendo le sofferenze dei civili all’inizio della stagione più inclemente: le temperature sono già molto rigide e sopravvivere senza riscaldamento è una tortura.

Ancora una volta, come già contro Napoleone e poi contro Hitler, il Generale Inverno è una carta in mano ai russi. Ci s’è messa pure la nebbia nel Donetsk, divenuta un fattore cruciale per l’esito della battaglia di Pokrovsk, dove le truppe di Kiev sono impegnate a resistere all’avanzata russa.
Racconta, su la Repubblica, Andrea Iannuzzi: «La scarsa visibilità impedisce l’attività dei droni, lasciando gli assediati senza difese dal cielo e permettendo ai soldati di Mosca di penetrare all’interno della città con almeno 300 uomini a piedi, in moto o su auto blindate». Del resto, anche le forze armate ucraine hanno potuto profittare della nebbia per piazzare i loro carri lungo le strade che portano nel centro, in particolare quelle necessarie ai rifornimenti.
L’esperto militare Gianluca Di Feo riferisce che, se i russi riusciranno a chiudere la tenaglia, dopo essersi infiltrati nelle retrovie ucraine, Pokrovsk non avrebbe più scampo. Le fonti ucraine riconoscono che la situazione è difficile, ma negano che la città, al centro di scontri da un anno, sia caduta o stia per cadere.

Sono giornate difficili per l’esercito ucraino, con perdite di terreno anche sul fronte sud: le linee di difesa a protezione di cinque insediamenti nell’area di Zaporizhzhia sono state abbandonate per l’intensificarsi del fuoco nemico, da giorni martellante intorno alla centrale nucleare più grande d’Europa, occupate dai russi fin dall’inizio dell’invasione.
La guerra di propaganda fa registrare attacchi e repliche, la cui attendibilità è, come sempre, tutta da verificare: Mosca denuncia un complotto ordito da Londra e Kiev per corrompere il pilota d’un Mig russo e indurlo a dirottare il suo aereo verso una base Nato dello scacchiere europeo, creando la più classica delle «false flag». L’Ucraina nega; il Cremlino afferma di aver attaccato per rappresaglia una base aerea a Brovary, nell’area di Kiev, e l’aeroporto di Starokostiantyniv nella regione di Khmelnytsky, dove sono di stanza gli F-16.

Ci sono pure turbolenze tutto intorno all’Ucraina. Un aereo cargo militare turco è precipitato lungo il confine tra Georgia e Azerbaigian, dopo essere decollato da una base azera. Il C-130 aveva a bordo venti persone: pare non vi siano superstiti. L’ipotesi più probabile è che si tratti d’un incidente, ma – nell’attuale contesto – solo l’inchiesta potrà escludere sabotaggi o attentati.
Dal canto suo, il governo romeno ha segnalato il rinvenimento di «possibili frammenti di drone» sul proprio territorio, dopo gli attacchi aerei russi contro il porto ucraino di Izmail sul Danubio. Accertamenti sono in corso.
In questa situazione di forte instabilità, torna ad udirsi la voce del ministro degli Esteri russo Serguiei Lavrov, che manda due messaggi a Trump e all’Occidente sulla questione dei presunti test nucleari russi. Lavrov dice: «Siamo pronti a discutere i sospetti sollevati dagli americani secondo cui stiamo facendo qualcosa di segreto»; e aggiunge: «Se qualsiasi potenza nucleare condurrà test nucleari, la Russia farà lo stesso».

Intanto, non si sblocca il veto dell’Ungheria all’adesione dell’Ucraina all’Ue: se ne parlerà a Kiev – informa Politico –, in un vertice tra il presidente ucraino Volodymyr Zelensky e i leader dell’Unione europea.