Esteri

Il ruolo ambiguo della Nato

22
Aprile 2022
Di Giampiero Gramaglia

Un Joe Biden in pessima forma dialettica e strategica, in questi tempi di guerra e di confronto, dice che, «quando venne eletto», il presidente russo Vladimir Putin «pensava che avrebbe facilmente distrutto la Nato; e invece sta ottenendo proprio ciò che non voleva, che la Finlandia e la Svezia aderiscano all’Alleanza atlantica»; e, per essere sicuro di “farsi terra bruciata” intorno, aggiunge che il presidente cinese Xi Jinping «non ha un briciolo di democrazia in sé …, non ha un solo osso democratico nel suo corpo». Per Biden, «dal 2020 – cioè, mi immagino, dalla sua elezione, ndr – è battaglia tra democrazia e autocrazia».

Parole pronunciate in Oregon, la sera di giovedì 21 aprile. Affermazioni – quelle su Russia e Nato – che non reggono a un qualsiasi “fact checking”: Putin fu eletto la prima volta nel 1999 ed è passato attraverso varie fasi del suo rapporto con l’Occidente, dall’iniziale avvicinamento, dopo l’inclusione della Russia nel G7 alla fine degli Anni Novanta e gli accordi di Pratica di Mare nel 2002 -; è stato partner, alleato, interlocutore, antagonista, ora di nuovo nemico.

Come nel tempo sono evoluti significati e missioni dell’Alleanza Atlantica, che oggi però si ritrova quasi al punto di partenza: protagonista di una Guerra Fredda, con il rischio – più forte che mai – che un conflitto regionale, con un aggressore e un aggredito, si trasformi in un conflitto globale, perché l’Occidente ha una leadership più interessata a fiaccare la Russia che a salvaguardare la pace – e migliaia, o decine di migliaia, o centinaia di migliaia, di vite umane -. E così torna a porsi l’interrogativo, ricorrente, sulla validità della Nato e sull’attualità delle sue strutture e missioni.

Negli Anni Ottanta, le riunioni semestrali del Consiglio atlantico, al quartier generale della Nato ad Evere, lungo il tratto di autostrada tra Bruxelles e l’aeroporto di Zaventem, erano appuntamenti semestrali importanti: a seguirle, c’erano i corrispondenti e frotte di inviati al seguito del ministro degli Esteri di turno. Nel clima teso della Guerra Fredda, erano incontri cruciali: c’era da prendere e poi da ribadire la decisione di installare gli euromissili; o da avallare l’esito delle trattative tra Usa e Urss, le ‘passeggiate nei boschi’ tra Paul Nitze e Yuli Kvitsinsky. E capitò più volte che le riunioni si chiudessero senza l’approvazione formale di un comunicato finale, perché ci voleva il consenso di tutti i Paesi membri, che allora erano solo 15, e la Grecia di Giorgio Papandreu padre, che non era più quella dei colonnelli, lo faceva mancare in polemica con la Turchia, che era ancora quella dei generali, con cui era in perenne polemica.

Ogni volta, un ‘media-dramma’: pareva di assistere all’incrinatura dell’Alleanza e ci si interrogava sul futuro della Nato. Tanto più che Stati Uniti e alleati europei erano sempre ai ferri dialetticamente corti sul ‘burden sharing’, cioè su una più equa ripartizione degli oneri della difesa: in chiaro, gli Usa chiedevano agli europei di spendere di più; gli europei facevano ‘giurin giuretta’; e, sei mesi dopo, si ricominciava da capo con lo stesso paragrafo messo lì con un ‘copia e incolla’ ante litteram sul nuovo comunicato.

Vinta la Guerra Fredda, dissolto il Patto di Varsavia e smembrata l’Unione sovietica, di riforma della Nato, superamento della Nato, abolizione della Nato si continuò a parlare negli Anni Novanta. Vennero di volta in volta in soccorso di chi voleva a tutti i costi tenere in piedi l’alleanza militare Usa – Europa le missioni umanitarie e le minacce esterne e, soprattutto, le guerre nei Balcani, sulla soglia di casa, un po’ innescate, già allora, dal ‘vizietto’ occidentale dell’antitesi tra rispetto delle frontiere e autodeterminazione dei popoli, dove, di volta in volta, l’uno prevale sull’altro a seconda che i Paesi e i popoli in questione siano amici nostri o del giaguaro – leggasi della Russia, per quanto depotenziata in quella decade -.

E così la Nato, che non aveva sparato un colpo in 45 anni di Guerra Fredda, si ritrovò a bombardare Belgrado, per altro senza l’avallo della comunità internazionale, leggasi delle Nazioni Unite. E saranno pur state bombe intelligenti, ma fecero lutti e devastazioni, come sempre le bombe. Scossa da quell’esperienza, l’Alleanza parve vacillare, ma l’11 Settembre 2001 le diede una nuova vitalità e una nuova missione: la guerra al terrorismo, che partì da un paradosso e che molti altri ne innescò.

Il paradosso iniziale fu che l’articolo 5 del Trattato dell’Atlantico del Nord, concepito per garantire agli europei la protezione statunitense, in caso di attacco dell’Urss, venne attivato per la prima – e unica – volta nella storia dell’Alleanza, per offrire agli Stati Uniti attaccati da al Qaida l’appoggio degli europei, con conseguente coinvolgimento nei vent’anni di conflitto in Afghanistan (per altro, finito con una plateale e devastante sconfitta, militare e politica). I paradossi successivi furono che la Nato si ritrovò alleati improbabili, che, con la scusa di partecipare alla guerra al terrorismo, regolavano i conti a casa loro, tipo la Russia in Cecenia. Di qui, molteplici ‘equivoci’, tipo l’ammissione della Russia al G7 divenuto G8 e gli accordi di Pratica di Mare, poi incrinati e mandati in frantumi dalla Georgia nel 2008 e dalla Crimea nel 2014.

Dopo la ‘parentesi Trump’, che aggrovigliò di instabilità e improbabilità qualsiasi relazione internazionale degli Stati Uniti, dall’Alleanza ai rapporti con la Russia, la guerra in Ucraina ripiomba la Nato nel ‘suo’ clima, la Guerra Fredda, avvicinando, però, il rischio, che non era mai stato così alto, con l’eccezione forse della ‘crisi dei missili’ del 1962, che diventi un conflitto reale. L’Alleanza diventa attrattiva anche per quei Paesi che non ne avevamo mai sentito né il fascino né il bisogno, pur essendo chiaramente parte dell’Occidente, come la Svezia e la Finlandia, e diventa una calamita per Paesi dell’ex Urss che hanno dei conti da regolare con Mosca, Moldavia, Georgia, Ucraina, che hanno tutti tare che li rendono, a vario livello, problematici.

E Biden, che pure ha conoscenza di tutto questo percorso, avendolo vissuto in prima linea – è stato senatore, vice-presidente, presidente – sembra avere dimenticato una parola e un concetto chiave nella salvaguardia della pace fino al 1990 e nella vittoria della Guerra Fredda: dissuasione, alias deterrenza, avere la forza non per usarla, ma per indurre gli altri a non usarla; e, una volta sicuri della propria forza, negoziare.

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