Esteri

Ucraina, le scelte di Biden che minano il successo dei negoziati con Putin

01
Aprile 2022
Di Giampiero Gramaglia

Dopo l’invasione dell’Ucraina, l’atteggiamento dell’Occidente verso la Russia pare condizionato – non so quanto coscientemente – da due fattori fra di loro contrastanti: da una parte, la “sindrome di Chamberlain e Daladier”, cioè la preoccupazione di essere troppo acquiescenti alle mire e alle mene di Vladimir Putin; e, dall’altra, invece, la consapevolezza che l’allargamento del conflitto significherebbe una terza guerra mondiale, nel segno dell’apocalisse nucleare. Questo dualismo caratterizza anche, e forse soprattutto, le decisioni dal presidente Usa Joe Biden, su cui, però, pesano pure altri due fattori interni: la volontà di mostrare fermezza e quasi rigidità verso Russia e Cina, per non apparire debole, e il desiderio di recuperare consenso nell’Unione, dopo la disfatta afghana dell’estate scorsa – non il ritiro in sé, condiviso dall’opinione pubblica, ma l’impreparazione e la disorganizzazione con cui venne condotto -.

Neville Chamberlain ed Édouard Daladier erano i capi del governo di Gran Bretagna e Francia che, nel 1938, alla conferenza di Monaco coi leader tedesco e italiano Adolf Hitler e Benito Mussolini, cedettero alle ambizioni di annessione dei Sudeti del Führer, senza neppure coinvolgere l’alleata Cecoslovacchia. Volevano evitare il conflitto: lo rinviarono solo di un anno, dando però il destro alla Germania nazista di meglio prepararsi e, quindi, di rendere la guerra più lunga e più letale.

Oggi, l’Occidente non vuole essere arrendevole di fronte alla prepotenza russa, come fece nel ’38 con Hitler: non concede a Putin la Crimea e il Donbass, che sono l’equivalente dei Sudeti, e, scattata l’invasione, arma Kiev e colpisce con sanzioni Mosca; ma, nel contempo, non vuole rischiare di allargare il conflitto ed esclude di intervenire in modo diretto, con propri mezzi – di qui, il no alla “no-fly zone” invocata dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky – e uomini sul terreno.

Ma se la priorità, in questo momento, è la fine della guerra, o almeno la cessazione delle ostilità, una tregua negoziale, le scelte dell’Occidente lasciano perplessi: gli Usa, la Nato, l’Ue aumentano le frizioni con Mosca, invece di ingaggiarla nel negoziato, e lasciano spazio a mediatori che si fanno spontaneamente avanti  – il turco Recep Tayyip Erdogan o l’israeliano Naftali Bennett – o che sono reticenti e riluttanti, come il presidente cinese Xi Jinping (di cui tra l’altro l’Ovest diffida).

L’arma delle sanzioni è spuntata, perché gli europei non sono pronti a colpire la Russia nell’energia – Germania, Italia  e altri Paesi dipendono in modo sostanziale dal gas russo – ed è un boomerang, che rischia di stordire anche chi l’ha lanciato, come la guerra del rublo alle viste annuncia. Inoltre, in questa fase, una tattica da “divide et impera” avrebbe forse evitato di riavvicinare Mosca e Pechino e di quasi cementare la loro cooperazione. 

L’anello labile della riflessione occidentale sono, in questo momento, gli Usa del presidente Usa Joe Biden. In missione in Europa per una trilogia di Vertici senza pari nella storia, Nato, G7 e Ue lo stesso giorno, giovedì 24 marzo, nello stesso luogo, Bruxelles, Biden si compiace di constatare che l’Occidente è più forte e più unito che mai e dice che «questa guerra è già un fallimento strategico per la Russia».

Ma poi afferma che «Putin non può restare al potere» e fa sprofondare le relazioni russo-americane al punto più basso di tutta la Guerra Fredda – nessun presidente Usa lo aveva mai detto di Stalin o Brezhnev – e suscita un corso di critiche e distinguo – neppure Donald Trump veniva corretto così platealmente da alleati e collaboratori -. La Casa Bianca spiega che Biden non intendeva dire quel che ha detto, assicura che gli Usa non vogliono un cambio di regime a Mosca.

La durezza verbale di Biden verso Putin incrina la credibilità diplomatica occidentale e non gli fa guadagnare punti nell’Unione. Per un sondaggio della Nbc, il gradimento del presidente è al 40%, costante rispetto  ad altri sondaggi recenti e in calo dal 43% di gennaio. Sette americani su 10 hanno scarsa fiducia nelle sue capacità di gestire il conflitto in Ucraina; otto su 10 temono che l’invasione si tradurrà in prezzi della benzina più alti – e già successo – e inneschi una guerra nucleare.

L’operazione di “damage control” condotta dall’Amministrazione Usa e dai suoi alleati vuole evitare che il Cremlino prenda sul serio le parole di Biden, cui su Putin scivola spesso la frizione lessicale: assassino, criminale di guerra, dittatore, macellaio, alcuni degli epiteti appioppati al leader russo, con cui, se vuole la pace, l’Occidente dovrebbe negoziare.

Ma c’è qualcosa di sistematico nelle scelte del presidente Usa Joe Biden: le proposte di bilancio 2023 appena trasmesse al Congresso sono destinate ad acuire il confronto con la Russia, prevedono spese per la difesa pari a  813,3 miliardi (il 4% in più rispetto al 2022), oltre il 13% della spesa globale di 5800 miliardi. Biden vuole «uno dei maggiori investimenti nella storia della sicurezza nazionale: fondi necessari – spiega – per assicurare che le nostre forze armate restino le più preparate, le più addestrate e le meglio attrezzate al mondo e per rispondere con forza all’aggressione di Putin all’Ucraina.

L’inasprimento dei rapporti tra Mosca e Washington non blocca i negoziati russo–ucraini, ma ne lascia l’Occidente ai margini: spettatore più che protagonista. Ci sono fermenti nelle trattative: Zelensky è pronto a discutere della neutralità dell’Ucraina; Putin ad accontentarsi del Donbass o indipendente o annesso, forse perché nel suo cerchio magico di consiglieri e oligarchi ci sono incrinature e defezioni. La pace che si sperava di Pasqua, arriverebbe in un’altra data simbolica (russa): il 9 Maggio, quando Mosca celebra la vittoria sulla Germania nazista.