Cultura

Radical Chic, genesi e metamorfosi di un termine

06
Gennaio 2024
Di Giampiero Cinelli

Ci sono termini apparentemente alieni che ottengono piena cittadinanza in una lingua. Lingua intesa, per come siamo abituati a rifletterci sopra, nella dimensione di uso comune. Infatti una lingua ufficiale può anche originare da ambienti di élite, come fu per l’italiano, ma nulla di essa sopravvive se poi non resta all’interno del linguaggio parlato. Questo un aspetto che è bene tenere a mente, soprattutto quando ci si muove nel lessico politico, una categoria dove (non è per forza un bene) assai spesso i significati che si attribuiscono alle parole non rispettano fedelmente il loro significato natìo. Per fare degli esempi recenti, si pensi alla parola “sovranismo“, concepita in piccoli ambienti di associazioni e attivisti privi di risonanza mediatica tra il 2010 e 2012, che non voleva certo ridursi a indicare la lotta all’immigrazione clandestina e che non rifletteva unicamente una sensibilità di destra, ma descriveva una visione in cui lo Stato recuperasse potere e influenza sulle questioni di politica economica e monetaria, in contrapposizione alle istituzioni tecnocratiche della globalizzazione. Ma ancora più attuale, è l’uso che in questo periodo si fa della parola “patriarcato“, intendendo, non quel complesso di norme sociali e giuridiche, che in passato caratterizzava la comunità a vantaggio dei maschi ma, più specificamente, determinati comportamenti o linguaggi interpretati dall’uomo nei confronti della donna. Tuttavia, crediamo non vi siano dubbi, nel ritenere che esista un vocabolo il quale più di tutti gli altri si sia conquistato spazio, penetrando profondamente nell’immaginario collettivo, pur essendo adesso usato in modo improprio o quantomeno discutibile a seconda di quanto rigore usiamo nell’analisi delle dottrine politiche. Questa parola è Radical Chic.

Quando e dove nasce la parola

Siamo a New York nel 1970 e il giornalista e scrittore Tom Wolfe è invitato ad un ricevimento in un attico di Park Avenue, di proprietà del pianista e direttore d’orchestra Leonard Bernstein. Presto appare chiaro che l’incontro è funzionale al raccoglimento di fondi a supporto delle Black Panthers, il gruppo politico armato afroamericano di ispirazione marxista. Un obiettivo che pare subito dissonante agli occhi di Wolfe, il quale si trova a constatare che dei ricchi e famosi borghesi della Grande Mela hanno piacere di finanziare una formazione politica violenta la quale, innanzi tutto, si propone di abbattere il sistema che permette a quei finanziatori di legittimare la loro posizione. Ne verrà fuori un articolo sul New York Magazine dal titolo “That Party at Lenny’s“, un lungo contributo di diverse pagine in seguito raccolto in un libro. Il giornalista tratteggia commensali inebriati dagli ideali delle Pantere rivoluzionarie, mentre nella sala girano vassoi d’argento colmi di bocconcini di Roquefort ricoperti di noci tritate. Scenario che egli definisce appunto “l’apoteosi dell’epoca radical chic”, spirito che “attraversava la cascome un ormone impazzito”, evidenziando però, a suo dire, che quelle persone sembravano attratte più dall’estetica dei combattenti afroamericani, inusualmente vestiti con occhiali da sole e dolcevita neri, piuttosto che dalle loro rivendicazioni, finendo dunque per confondere un piano destabilizzante con un atto politico incentrato sull’estetica.

In Italia un’illustre penna riprende il termine

Le parole si sa, viaggiano e fanno il giro del mondo. Fino ad arrivare sulla stampa italiana, sempre negli anni ’70 del novecento. Nel 1972, con “Lettera a Camilla”, pubblicata sul Corriere della Sera, Indro Montanelli si rivolge direttamente a Camilla Cederna, nota firma dell’Espresso, che negli anni si era guadagnata sempre maggiore popolarità per via di posizioni molto coraggiose in merito a fatti cruciali della storia politica nazionale, come ad esempio in occasione della morte dell’anarchico Giuseppe Pinelli. La Cederna aveva apertamente promosso una lettera, pubblicata a margine di un suo articolo sull’Espresso, in cui si chiedeva la destituzione del Commissario Luigi Calabresi – poi assassinato dai terroristi – ritenuto responsabile della morte di Pinelli, avvenuta in circostanze ancora oggi non chiarite all’interno della Questura di Milano.

La lettera fu firmata da 757 intellettuali. Montanelli ascrive la giornalista dell’Espresso a massima esponente del “magma radical chic” e, nel suo scritto, ci tiene a sminuire le posizioni di Cederna, reputandole, seppur non insincere, comunque ispirate da fattori emotivi e di certo non aderenti al profilo psicosociale della scrittrice. Con frasi vivaci e di stile ma parimenti irrispettose, Montanelli osserva: “C’è chi dice che, più delle bombe, ti sei innamorata dei bombaroli, e questo, conoscendo i tuoi rigorosi e severi costumi, posso accettarlo solo se alla parola “amore” si dia il suo significato cristiano di fratellanza. […] Fino a ieri testimone furtiva o relatrice discreta di trame e tresche salottiere, arbitra di mode, maestra di sfumature, fustigatrice di vizi armata di cipria e piumino, ora si direbbe che tu abbia sempre parlato il gergo dei comizi e non sappia più respirare che l’aria del Circo. Ti capisco. Deve essere inebriante, per una che lo fu della mondanità, ritrovarsi regina della dinamite e sentirsi investita del suo alto patronato. […] Gli anarchici perlomeno odorano d’uomo anche se forse un po’ troppo. Sul tuo perbenismo di signorina di buona famiglia, il loro afrore, il loro linguaggio, le loro maniere, devono sortire effetti afrodisiaci“.

Il Radical Chic oggi

Una “signorina di buona famiglia”, come scrive Montanelli, insomma non sarebbe credibile nello sposare la causa di emarginati anarchici. Se non nel caso, proprio in quanto donna, sia stata sedotta dall’animo e dal fare di uomini così diversi da lei. Forse con Montanelli inizia la rivisitazione del termine, sorte infausta che tocca a tutte le “parole famose”, tuttavia sulla penna del direttore de Il Giornale ancora si coglie più o meno il senso che Tom Wolfe gli aveva dato. Ossia di un individuo all’apparenza poco coerente con le idee che esprime. Ad oggi, invece, sentiamo usare radical chic per appellare personaggi, anch’essi ricchi e famosi, ma dall’identità politica dichiarata non certo massimalista o anarchico-rivoluzionaria. Si tratta, questo sì, di individui che anche autonomamente si collocano nell’area culturale della sinistra, però di una sinistra moderna, o per meglio dire, liberale. Proprio quella sinistra che, nella nomenclatura politica americana, si definirebbe “liberal“. E non a caso, i soggetti di cui parliamo hanno molte similitudini con alcuni profili statunitensi afferenti al mondo dell’arte, della comunicazione o dell’attivismo. Qualche nome? Come non pensare (senza tema di smentita) a Fedez e Ferragni, a Oliviero Toscani, a Bono degli U2, a Jovanotti o ad Alessandro Gassmann.

Le persone che abbiamo citato, ci siamo permessi di farlo, in quanto esse stesse vengono percepite dal pubblico (in primis dei social) come “Radical Chic”. Ora secondo un concetto che sicuramente va reinterpretato: essi infatti non vengono delegittimati per le idee in sé, ma perché certe idee – solitamente istanze inerenti all’apertura dei confini, alla massima espressione dei diritti lgbt, all’attenzione al politicamente corretto – sono sentite dai loro detrattori come troppo facili e scontate da sostenere se fai parte delle classi agiate, quando invece pare non emergere, da parte di questi personaggi, lo stesso attaccamento nei confronti di temi ugualmente importanti, ma più controversi e delicati da propalare, che sono invece quelli sul modello economico, sul sistema finanziario, sul rapporto tra Stato e istituzioni globali.

Si badi che vengono spesso definiti Radical Chic gli stessi leader politici dei partiti di sinistra, più precisamente di centrosinistra, qui mostrando un evidente cortocircuito cognitivo oltre che semantico. Dato che, tutti gli esperti concorderebbero, persone come Enrico Letta o Elly Schlein non sono certo “radicali”, se per radicale intendiamo chi decenni fa simpatizzava per le Pantere Nere. E se sono “chic”, questa loro eleganza si confà al ruolo e al loro reddito, ma chiaramente entro dei canoni che non dovrebbero destare tutto questo stupore, a differenza invece delle plateali ricchezze mostrate da altri personaggi, i quali si affannano a farsi percepire interessati molto più agli ideali che al business, cosa che appare poco realistica alla luce appunto di come quegli stessi vip conducono la propria vita.

Pur apparendo chiara, dopo averla analizzata, questa nuova accezione, presente principalmente in Italia, è agevole concludere che essa non abbia più nulla a che fare con la spiegazione resa nel secolo scorso. Ma come abbiamo detto nel primo paragrafo, inutile protestare troppo, perché la lingua è di chi la usa e non dei dizionari o dei letterati.

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