Innovazione

La Silicon Valley italiana esiste e si trova nell’Agro Pontino 

04
Marzo 2022
Di Daniele Bernardi

Chi lo ha detto che non esiste una Silicon Valley italiana? Esiste e si trova nell’Agro Pontino! Ovviamente si scherza, ma forse neanche troppo. Dobbiamo dircelo, il nostro paese non brilla ormai da un po’ in quanto a innovazione, abbiamo un forte deficit sulla digitalizzazione della pubblica amministrazione e spesso anche il settore privato ha difficoltà a stare al passo coi tempi e col mercato internazionale. Non tutto è perduto però. Si è sempre sognato in Europa, e soprattutto in Italia, un luogo fulcro delle innovazioni e casa delle startup dedite all’open innovation. Un luogo dove veder nascere e crescere la Apple europea o la Microsoft tricolore. Col PNRR e la grossa fetta di fondi riservata alla transizione digitale, questo sogno potrebbe divenire realtà. 

È quanto emerso questo giovedì nel Talk “Connessioni”, organizzato dalla Fondazione Italia Digitale negli Utopia Studios di Roma. Durante l’evento sono intervenuti Enrico Forte, consigliere regionale del Lazio e firmatario della prima legge sull’open innovation in Italia, Daniele Leodori, vicepresidente della regione Lazio, e Valeria Fascione, assessore alla Ricerca, innovazione e startup per la regione Campania, a fare gli onori di casa: Francesco Nicodemo, già comunicatore politico per il Partito Democratico, per il governo Renzi e oggi portavoce della Fondazione Italia Digitale, fondazione che contribuisce allo sviluppo delle politiche legate al mondo del digitale. Ed è proprio tra queste due regioni, Lazio e Campania, che potrebbe nascere una Silicon Valley tutta italiana.

Nel dettaglio, il tema della conferenza era l’open innovation: con questo termine, come ben ricordato da Nicodemo attraverso le parole di Henry Chesbrough, ci riferiamo al modello di innovazione distribuita che coinvolge afflussi e deflussi di conoscenza gestiti in modo mirato tra i confini dell’organizzazione fino a generare anche spill-over, il fenomeno che avviene quando un’attività economica produce effetti positivi anche oltre gli ambiti in cui agisce. 

C’è da considerare che un passo in avanti le amministrazioni locali dei territori sopra citati l’hanno già fatto da tempo, molto prima che si parlasse del Recovery Fund. Nel Lazio è presente già dal 2013 un ente locale adibito al coordinamento e alla promozione di realtà innovative e alla crescita delle startup: Lazio Innova, società della regione con una partecipazione di minoranza della Camera di Commercio romana; mentre in Campania è stato inaugurato nel 2015 il Polo universitario di San Giovanni, un polo tecnologico e innovativo sede di centri di ricerca appartenenti a grandi aziende multinazionali come Apple, Deloitte e Cisco.  

Ma com’è la situazione al momento? Il nodo che si cerca di sciogliere in entrambe le regioni è proprio quello che sostanzialmente distingue l’innovazione dall’open innovation, tenendo la prima riservata solo a grandi aziende, che raramente arricchiscono il territorio, o a piccoli Think tank/startup, in difficoltà nella messa a terra dei propri progetti. L’idea dietro le strategie delle amministrazioni che si sono succedute negli ultimi anni è quello di congiungere questi mondi attraverso un parziale intervento pubblico. Come ha ben spiegato il consigliere Forte «Non serve una regionalizzazione ma l’intervento pubblico è necessario». Uno dei primi passi in questa direzione è stato compiuto sicuramente con la legge 10 del 2021, la legge regionale sull’open innovation di cui si parlava prima: l’obiettivo della legge era quello di portare l’innovazione anche nelle piccole e medie industrie (PMI), attraverso ad esempio un dialogo con gli istituti di formazione o dando un luogo fisico all’open innovation. Indovinate dove? A Latina (proprio il capoluogo pontino!). Il tutto mediante un investimento di 3 milioni di euro da spalmare in tre anni. Da questa legge, ha raccontato Leodori, sono nate le Open innovation challenge, condotte da Lazio Innova, ben 22 sfide che hanno accompagnato le startup verso nuove soluzioni e nuove clientele. 

Analogamente, in Campania, l’assessorato alla Ricerca, innovazione e startup della dottoressa Fascione ha creato una piattaforma di open innovation: come ha affermato lei stessa, si tratta di un market place in cui l’azienda lancia una sfida che viene poi accolta da centri studi o piccole startup, le quali elaborano una soluzione e la propongono. Da questo piccolo ‘gioco’ sono nate tante soluzioni all’avanguardia: come il sistema di sorveglianza per la Riserva Naturale del Cratere degli Astroni che sfrutta la tecnologia IoT, oppure la nuova linea di prodotti Carpisa fatta con materiali innovativi. 

Pur con gli ottimi risultati raggiunti finora, non si può non sperare che in futuro l’Italia si renda sempre più competitiva e che esempi di open innovation come quelli sopra descritti diventino il normale metodo di fare impresa nel nostro paese. E forse, con i miliardi del PNRR, possiamo fare qualcosa di più che sperare. Diversi sono i progetti in cantiere nelle amministrazioni di questi territori: da un investimento massiccio in formazione e lauree STEM (anglicismo per classificare le lauree scientifiche, tecnologiche, ingegneristiche e matematiche) perché, come ha affermato il vicepresidente della regione Lazio «se non investiamo nella ricerca, l’innovazione non può essere conseguente», a nuove infrastrutture, come il Green Innovation District descritto dall’assessore Fascione, un luogo dove fare innovazione e contemporaneamente garantire la sostenibilità delle nostre filiere. 

Insomma, sentiamo spesso rivendicare l’italianità del telefono (inventato da Meucci) o della radio (Marconi), o rimpiangere quel che sarebbe potuta essere l’Olivetti, la Microsoft del Bel Paese. Eppure, oggi abbiamo la possibilità di avere davvero la Silicon Valley italiana. E chissà che questa non si trovi proprio nell’Agro Pontino.