C’è qualcosa che resta – scorie e sospetti a parte – del cosiddetto caso Garofani? Intendo dire: politicamente parlando, cosa rimane di quella vicenda?
Rimane sul tavolo la conclamata sfiducia anche da parte di personalità autorevoli del mondo progressista rispetto alla capacità di Elly Schlein di competere credibilmente per Palazzo Chigi nel 2027.
Al di là del giudizio di ciascuno sull’inopportunità o meno di conversazioni a forte connotazione politica di un consigliere del Capo dello Stato, la sensazione che resta è quella della ricerca di uno schema alternativo rispetto al modulo fisso di Schlein, che – diciamolo – sembra prevedere un inseguimento sistematico delle posizioni più massimaliste. Ecco, così non si vince e nemmeno si compete, paiono dire voci del centrosinistra del passato a vario livello.
E questo è indubbiamente vero. E tuttavia, se è consentito, il punto non è solo (geometricamente) spostare la Schlein un po’ meno verso sinistra. Per capirci, Schlein resterebbe Schlein pure se simulasse un microspostamento verso il centro. Ognuno di noi ha un’attitudine, un’inclinazione, e non basta una correzione tattica per realizzare l’esercizio impossibile di modificare una personalità e un profilo.
E allora? E allora si pone un doppio problema. Il primo è chiaramente di leadership. Il secondo (se possibile ancora più profondo) è rappresentato dall’esigenza di finirla con un gioco politico solo in funzione “anti”: anti-Meloni oggi, anti-Salvini sempre, anti-Berlusconi ieri, e così via. Finché l’identità della sinistra sarà costruita per contrasto e per riflesso, per ostilità e non per proposta, la strada dei progressisti resterà drammaticamente e ripidamente in salita.





