Esteri

Dopo il sì alla tregua, Trump verso Israele ed Egitto, lasciandosi dietro grane interne

10
Ottobre 2025
Di Giampiero Gramaglia

Il controverso sì del governo israeliano al cessate-il-fuoco nella Striscia di Gaza, in concomitanza con la restituzione, da parte di Hamas e di altri gruppi palestinesi, di tutti gli ostaggi, vivi o morti, tuttora trattenuti, e con la liberazione di prigionieri palestinesi dalle carceri israeliane, corrobora l’intenzione del presidente Usa Donald Trump di recarsi in Medio Oriente, in Israele e in Egitto, all’inizio della prossima settimana, per partecipare ai riti della ‘pace’ (scritta proprio così, fra apici, dal Washington Post, a testimoniare la diffidenza sulla portata dell’intesa).

Il sì all’accordo del governo del premier Benjamin Netanyahu è venuto nonostante l’opposizione delle componenti ultra-religiose della maggioranza di centro-destra. I fondamentalisti, che vogliono sradicare Hamas dalla Striscia e annettere la CisGiordania, non intendono però frapporsi al ritorno degli ostaggi, ma cercheranno di condizionare eventuali fasi successive del piano in 20 punti presentato da Trump il 29 settembre.

Nel dare la notizia, accolta con scene di giubilo da israeliani e palestinesi e commentata con favore dalla diplomazia mondiale, l’Ap scrive: “E’ un passo chiave per l’attuazione dell’accordo mediato dal presidente Trump… La breve dichiarazione dell’ufficio del premier Netanyahu si limita a citare il rilascio degli ostaggi e non evoca le altre parti del piano Trump…”.

A quanto si è appreso, gli Stati Uniti invieranno in Israele circa 200 soldati per favorire e controllare il rispetto della tregua a Gaza. Ci saranno pure militari di altri Paesi, organizzazioni non governative e rappresentanti della società civile.

Dopo il sì del governo israeliano, è scattato il conto alla rovescia per la la restituzione degli ostaggi, la liberazione dei prigionieri e lo stop ai bombardamenti sulla Striscia di Gaza. In particolare, stando ai calcoli del New York Times, la restituzione degli ostaggi dovrebbe avvenire all’inizio della prossima settimana.

Il Washington Post s’interroga, in un titolo, su “quanto merito spetti a Trump” per questo accordo. Più positivo, il Wall Street Journal racconta “come la ‘diplomazia dello sconquasso’ di Trump ha ottenuto un’importante vittoria in politica estera”: “La strategia non ortodossa del presidente (dichiarare vittoria e lasciare che altri mettano a punto i dettagli) dà per ora frutti e porta una tregua nella guerra che andava avanti da due anni”.

Al termine di una riunione del suo gabinetto, ieri, Trump ha detto che vuole ora lavorare per la pace con l’Iran e in Ucraina e s’è detto convinto che la pace in Medio Oriente “sarà duratura”.

Grane, persecuzione giudiziaria avversari interni, blocchi da giudici, shutdown
Nonostante il rilievo e l’importanza delle notizie mediorientali, molti media Usa danno, però, più spazio al rinvio a giudizio della procuratrice generale di New York Laetitia James, soprattutto colpevole di avere trascinato in giudizio lo scorso anno Trump e di averne poi ottenuto la condanna da una giuria popolare.

La procuratrice è ora accusata di frode per un mutuo, lo stesso reato contestato alla governatrice della Federal Reserve Lisa Cook, che il presidente ha licenziato, ma che un giudice ha decretato possa restare al suo posto.  Il New York Times scrive che il rinvio a giudizio di James “è il frutto delle pressioni di Trump sul Dipartimento della Giustizia ed è stato ottenuto dopo che gli inquirenti di carriera che non avevano trovato motivo di procedere sono stati sostituiti da elementi di fiducia del presidente”.

James ha così commentato la sua incriminazione: una “ritorsione politica”, accuse “infondate”, “l’uso del nostro sistema giudiziario come arma politica”.

Il rinvio a giudizio di James segue quello dell’ex direttore dell’Fbi James Comey, visto anch’egli come nemico da Trump. Il processo a Comey, accusato di avere mentito al Congresso, s’è aperto mercoledì: l’imputato s’è dichiarato innocente delle accuse mossegli e cercherà di ottenere l’annullamento del procedimento per la sua natura “vendicativa”.

Ieri, un giudice dell’Illinois ha bloccato per due settimane lo schieramento della Guardia Nazionale a Chicago, non riscontrando “prove sostanziali del pericolo di ribellione” evocato da Trump nell’annunciare la misura. L’Amministrazione farà appello. E’ la seconda volta in pochi giorni che un giudice blocca l’invio in uno Stato della Guardia Nazionale, contro la volontà del governatore: era già successo nell’Oregon, per Portland.

In Congresso, s’è arenato un tentativo bipartisan di circoscrivere i poteri di guerra del presidente, invocati nella vicenda delle imbarcazioni di presunti narco-trafficanti proditoriamente colpite e affondate nei Caraibi.