Politica

La sindrome dell’uomo ‘nero’. Perché la sinistra è contraria alle riforme istituzionali

11
Maggio 2023
Di Ettore Maria Colombo

Per parlare delle riforme istituzionali dell’oggi (il ‘giro di tavolo’ tra il governo Meloni e la sua maggioranza e le delegazioni dei partiti di opposizione) e capire perché la sinistra (quella democrat e quella grillina, quella della sinistra radicale di Verdi-SI come pure quella che potremmo definire ‘ex’ azionista: Az, +Europa, con la sola eccezione di Italia viva di Renzi) rifiuta, sostanzialmente, qualsiasi forma di governo ‘forte’ che sappia di presidenzialismo, semipresidenzialismo e pure di premierato forte, tocca prenderla alla lontana. E risalire indietro.

La domanda topica è ovviamente una: perché la sinistra, e in particolare il Pd della Schlein – una sinistra che non ha più nulla a che fare con il Pci-Pds-Ds, ma che si configura sempre di più come una sorta di partito ‘radical chic’ di massa – ha ancora ‘paura’ dell’introduzione di un regime presidenziale o semi-presidenziale? Cioè la riforma che oggi propone la presidente Meloni? Si chiama, in letteratura e in psicanalisi, non solo per l’infanzia, ma pure in politologia, “sindrome dell’Uomo Nero”. Un sentimento profondo, radicato nell’inconscio, quasi pre-politico, che viene da lontano, direttamente dal dopoguerra.

Per chi ‘nasce’ dalla guerra di Liberazione, dopo la caduta del regime fascista, e contribuisce a scrivere la Costituzione, non vi erano dubbi. I partiti di sinistra – il Pci, ma anche e soprattutto il Psi di allora, più Psli-Psdi, Pd’Az-Pri, etc, cioè tutti i partiti antifascisti che non erano la Dc – partito allora ‘decisionista’ (tendenza De Gasperi) tranne la sua parte della sinistra cattolica pauperista e dossettiana (tendenza, appunto, Dossetti), dai cui lombi, non a caso, arriva il pezzo di cattolicesimo impegnato e popolare che, dal PPI alla Margherita, confluirà poi, nel 2007, nel Pd – il primo compito è stato impegnarsi, in modo strenuo, per ‘impedire’ che il ‘fascismo’ possa ritornare. La Costituzione stessa, nella sua II parte, disegna e costruisce una Repubblica di tipo rigidamente parlamentare che attribuisce poteri al Capo di Stato solo formali per la precisa richiesta delle sinistre di allora, richiesta che la Dc avallò. Poi, i Presidenti della Repubblica hanno acquisito sempre più peso (i poteri ‘a fisarmonica’), ma questo è tutt’altro discorso.

In sostanza, il timore dell’avvento di una qualche variante italiana di ‘gollismo’ (il termine deriva da Charles De Gaulle che, nel 1956, torna al Potere in Francia e trasforma una repubblica parlamentare, la IV, in presidenziale, la V Repubblica), è sempre stato incombente. Una preoccupazione e un assillo costante, a sinistra, e condito pure dall’altro rischio. Quello di un ‘colpo di Stato’ che, in un Paese che vive sotto “l’ombrello della Nato”, come dirà Berlinguer, rischiava di farci scivolare in un golpe di fatto. La ‘lezione’ dell’insurrezione comunista in Grecia (1947) cui seguì il ‘regime dei colonnelli’ e del colpo di stato di Pinochet in Cile (1973), è sempre stato un ‘pensiero fisso’ nelle menti dei dirigenti della sinistra. Non a caso, sia Palmiro Togliatti sia Enrico Berlinguer avevano talmente ‘immagazzinato’ il rischio (rischiare di finire fuorilegge o, persino, nelle patrie galere) che fecero di tutto – Togliatti i governi di unità nazionale con De Gasperi e Berlinguer i governi di solidarietà nazionale con Moro-Andreotti) – pur di evitare che ‘il fascismo’, prima o poi, ritornasse. Quello che Umberto Eco chiamava il fascismo “dell’eterno ritorno” era il vero pericolo.

Questa (consapevole) paura che negli anni addietro poteva anche avere una qualche giustificazione, nella II Repubblica (dal 1994 in poi) si è in modo del tutto irrazionale trasferita al Pds-Ds e, poi, è ‘trasmigrata’ nel Pd, quando l’Uomo Nero’ per antonomasia assunse le fattezze del Cavaliere Nero. Cioè quel Silvio Berlusconi, fondatore di FI, che aveva sdoganato la Lega di Bossi e AN di Fini in un colpo solo. Forze che la sinistra giudicava, né più né meno, che eversive. La paura dell’uomo nero – o meglio dell’uomo forte – si è così incarnata in Berlusconi, e il fatto che il leader azzurro fosse anche il padrone del gruppo televisivo privato più importante del Paese ha accentuato un sentimento pre-politico. Niente di concreto, ma quando arrivò Berlusconi la sindrome da Eterno Ritorno dell’Uomo Nero, la sinistra, ormai già post-comunista, l’aveva ormai talmente introiettata da non riuscire a liberarsene.

Per combattere “l’evidente” (sic) rischio di scivolare verso una ‘Dittatura’ (sic), bisognava non solo “scendere in piazza”, ma anche lottare. Termini e atteggiamenti anti-storici, di altri periodi ben più tragici della storia nazionale, ma tant’è. Con una sola (anzi due) eccezioni, entrambe arrivate tra metà e fine anni Novanta. Nel 1995-1996 il segretario degli allora Ds, Massimo D’Alema, tentò l’impossibile: dare vita a una commissione Bicamerale per le Riforme, da condividere proprio con l’odiato Berlusconi, per cambiare in profondo l’ordinamento dello Stato. Bicamerale per le riforme, ‘patto della crostata’ a sugellarla a casa Letta, che prima di fallire era arrivata a trovare un’intesa proprio sul terreno che, per la sinistra, equivale a una bestemmia, il semi-presidenzialismo. Il tentativo della Bicamerale guidata da D’Alema non ebbe seguito a causa di Berlusconi che, alla fine, si tirò indietro, ma la nomea di traditore della Sinistra, D’Alema, da allora non se la scrollò più di dosso.

L’altra eccezione – all’epoca, però, poco discussa e per nulla compresa – stava nel cuore fondante della coalizione (e, in nuce, del ‘partito’) dell’Ulivo guidato da Romano Prodi, che guidò la sua prima coalizione di governo in quegli anni. Il “governo del Primo ministro” era già nella tesi numero 1 dell’Ulivo di Romano Prodi nel 1996: «Appare opportuna nel nostro Paese – è scritto nero su bianco – l’adozione di una forma di governo centrata sulla figura del Primo Ministro investito in seguito al voto di fiducia parlamentare in coerenza con gli orientamenti dell’elettorato. A tal fine è da prevedere, sulla scheda elettorale, l’indicazione – a fianco del candidato del collegio uninominale – del partito o della coalizione alla quale questi aderisce e del candidato premier da essi designato. Secondo i modelli vigenti negli altri Paesi in cui la forma di governo si orienta intorno al Primo Ministro, appare opportuno dare vita ad una convenzione costituzionale secondo la quale un cambiamento di maggioranza di Governo richieda di norma e comunque in tempi brevi lo scioglimento della Camera politica e il ricorso a nuove elezioni. Viceversa, resta possibile la sostituzione del Premier all’interno della medesima maggioranza col metodo della sfiducia costruttiva». Come si vede, il ‘germe’ del premierato forte c’è già tutto, ma nelle tesi, scritte materialmente dal professor Arturo Parisi, su mandato di Prodi, che rilanciava la lezione del professore, ucciso dalle Br, Roberto Ruffilli (“Il cittadino come arbitro”), a inizio anni Ottanta, l’accento è, come si legge nella tesi dell’Ulivo sopra riportato, tutto sulla legge elettorale. Senza un maggioritario secco o quasi (allora, il sistema vigente era il Mattarellum) la modifica costituzionale perdeva, di fatto, volume e consistenza. In pratica, dal sistema elettorale ‘discendeva’ il sistema istituzionale mentre, di solito, funziona sempre – e meglio – il viceversa.

Poi, però, il Pds-Ds da un lato e il PPI-Margherita dall’altro, dopo aver fatto naufragare il ‘partito’ dell’Ulivo, tornano al puro conservatorismo istituzionale (come nel caso della bocciatura della riforma Calderoli al referendum istituzionale confermativo del 2006) che neppure la timida apertura di Veltroni a Berlusconi, alle politiche del 2008 (Veltroni fa mettere il suo nome sulla scheda elettorale del nascituro Pd e propone riforme ‘condivise’ al centrodestra) riuscirà mai a scalfire. Si torna, con le segreterie Bersani, Zingaretti, Letta (e una lunga teoria di modesti ‘reggenti’) al ‘no’ a ogni tipo di riforma istituzionale condivisa. Ovviamente, la strategia del ragno di Renzi, balzato alla guida del Pd e, subito dopo, del governo, nel 2015-2017, rompe questa solida tradizione, ma dura poco, sia Renzi che il voler dar vita a riforme istituzionali forti e condivise. Renzi diventa presto corpo estraneo.

Il tentativo di varare una riforma costituzionale (bocciata, in questo caso, dagli elettori, con il referendum del 2015) vede l’allora premier Renzi additato come un vero ‘ducetto’ (e va detto che la sua riforma comunque non prevedeva l’elezione diretta del presidente della repubblica). Osteggiato, prima ancora che dalla destra (Ncd di Alfano e Ala di Verdini gli garantirono i voti, in Parlamento, per far passare prima la riforma della legge elettorale, l’Italicum, e poi la riforma costituzionale del Senato, che veniva trasformato, nel ddl Boschi, in pura Camera delle autonomie), dalla sinistra (Anpi, costituzionalisti, giudici, etc), nell’immaginario collettivo Renzi diventa l’Uomo Nero del nuovo millennio, nuovo Duce o, quantomeno, novello Craxi. Il quale Craxi, peraltro, per quanto detestato dalla sinistra (allora ancora comunista) era stato crocefisso per la sola riforma degna di questo nome che, finalmente, aveva affidato alla presidenza del Consiglio una serie di poteri necessari per renderla funzionale (dlgs1988), pur se solo per via amministrativa, riforma ancora oggi utile e indispensabile per chiunque svolga, pro tempore, il ruolo di premier, anche se mai assunse i contorni di quella ‘Grande Riforma’ (istituzionale) che Craxi voleva dare all’Italia per migliorarne vita politica e sociale, proprio come oggi vuole fare da destra la Meloni.

Insomma, la Sinistra – anche quando guidata da figure, ‘liberal’, come il primo segretario del Pd, Veltroni, all’attuale, invece molto radical, Schein – proprio non ci riesce a liberarsi dal ‘complesso’, anche se i tempi sono cambiati. Un atteggiamento che in psicanalisi è definita ‘coazione a ripetere’. La paura dell’uomo ‘nero’, o forte, vince su tutto.

Ecco perché, secondo quanto filtra dall’entourage di Meloni, la leader di Fratelli d’Italia non crede affatto a una convergenza bipartisan. La premier sa perfettamente, visti i precedenti, che alla fine dovrà provare a varare la “sua” riforma a colpi di maggioranza. E che, al termine del percorso parlamentare tracciato dall’articolo 138 della Costituzione, sarà chiamata come Renzi alla prova del referendum confermativo.

Per tutte queste ragioni, a dispetto delle resistenze di Forza Italia che punta sul premierato e di Matteo Salvini che ha a cuore solo l’autonomia differenziata, Meloni con ogni probabilità andrà sparata sul presidenzialismo e, solo se otterrà davvero il sì dei centristi, punterà sull’obiettivo minore, il premierato forte. Varare questa riforma che cambierebbe i connotati alla Repubblica, ne rafforzerebbe indiscutibilmente la leadership, ma è un rischio. Più fonti rivelano l’intenzione di Meloni di far approvare dal governo il disegno di legge di revisione costituzionale in senso presidenziale tra la fine di maggio e metà giugno. Poi, ci vorranno almeno due anni, tra doppia lettura in copia conforme di entrambe le Camere e referendum confermativo che, dati i numeri attuali, anche ove vi fosse l’apporto dei centristi, il governo non potrà evitare. E se è vero che chi va a referendum e perde riceve lo sfratto da palazzo Chigi (Renzi insegna) e che, al di là della propaganda, Meloni non ha alcuna fretta, è anche vero che, di fronte alla paura della donna ‘nera’, la sinistra – laica e cattolica, radicale e moderata – dirà l’ennesimo no, ‘coerente’ alle sue paure.