Politica

Riforme istituzionali, Clementi: «Non serve avere paura, ma il Capo dello Stato resti garante di tutti»

10
Maggio 2023
Di Giampiero Cinelli

Si è svolto il primo round di consultazioni tra i partiti e il premier per definire un percorso di riforme istituzionali ambizioso, che comprende anche una nuova concezione del nostro Stato. Giorgia Meloni sembra indirizzata a un modello in grado di rafforzare molto l’esecutivo e i poteri del leader di governo, ma non è ancora chiaro quale sarà lo schema su cui si lavorerà, in tutta probabilità attraverso una commissione bicamerale composta da tutti i partiti. Il tema è ampio e terrà banco. Lo abbiamo analizzato parlando con Francesco Clementi, uno dei massimi costituzionalisti italiani, docente ordinario di diritto pubblico comparato alla Sapienza di Roma, il quale ha tracciato le linee di una probabile riforma, dei suoi effetti e del contesto in cui si inserisce. Clementi è stato componente della “Commissione di esperti per la riforma costituzionale” nominata dal Presidente della Repubblica che ha lavorato nel biennio 2013-2014.

Professore, le riforme istituzionali ci sembrano mutamenti imponenti a cui a volte ci sentiamo impreparati, ma a ben vedere l’Italia nella sua storia ha già avuto passaggi storici. Dalla monarchia alla monarchia costituzionale, poi la parentesi fascista fino alla Repubblica, dunque la riforma del Titolo V. Ciò significa che il nostro ordinamento è pronto a potenziali nuovi orizzonti, o troppo debole, col rischio di innescare spinte centrifughe a cui ancora oggi assistiamo?
«Il nostro Paese è sempre stato più saldo di quanto non di rado viene dipinto. Tuttavia, proprio l’esperienza europea dimostra come alcuni elementi di stabilizzazione dell’ordinamento, relativi alla Parte II della Costituzione, vanno introdotti per consentire al nostro Paese di tenere il ritmo delle dinamiche proprie, comuni già ad altri Paesi europei. Di cosa parlo? Del rafforzamento dell’esecutivo, ossia di una sua stabilizzazione nella sua durata ed efficacia; di un bicameralismo che dia voce anche alla dimensione territoriale del Paese, esaltata ormai da oltre vent’anni dal Titolo V riformato; infine, una rilettura dello stesso Titolo V, sulla scorta della giurisprudenza della Corte costituzionale di questi anni e di quanto abbiamo misurato nelle esperienze concrete, a partire dalla gestione del Covid. Dunque non dobbiamo avere paura a fare le riforme costituzionali. Ma dobbiamo farle con la consapevolezza dell’importanza del processo che si andrebbe ad aprire».

Nel passato recente l’idea di dare nuova forma allo Stato italiano ha animato molti politici importanti. Prima di Renzi, che sogna “il sindaco d’Italia”, ad anelare al Presidenzialismo era stato Bettino Craxi. Può spiegarci in breve quale clima all’epoca ispirava quest’idea e in cosa si differenziava invece dai discorsi di oggi in tema istituzionale?
«Ogni epoca naturalmente fa riferimento ad un contesto storico-politico specifico. Il rafforzamento dell’esecutivo nella dimensione proposta da Craxi aveva una funzione anche tutta interna, per aprire uno spazio politico al PSI stretto all’interno del compromesso storico potenziale tra DC e PCI. Dunque l’obiettivo era un uso delle riforme per incidere all’interno del sistema politico, al netto delle disfunzionalità del sistema istituzionale. L’esperienza del 2016 invece fa riferimento a tutt’altro. Ad una dimensione esterna, che non intende toccare il sistema dei partiti. Quella proposta politica aveva infatti in animo di occuparsi esclusivamente delle disfunzionalità del sistema politico-istituzionale, non di quello partitico, il quale aveva già imboccato una strada tutta sua autonoma. Naturalmente Renzi ne avrebbe beneficiato. Tuttavia il suo obiettivo era essenzialmente occuparsi delle disfunzionalità istituzionali non di quelle partitiche, che al più sarebbero state una conseguenza».

Sembra avanzare il tema di un cancellierato alla tedesca. Di cosa si tratterebbe? Del resto, non crede che le tante sensibilità possano generare uno stallo o un risultato poco definito, anche se si facesse una commissione bicamerale?
«Ancora non è chiaro il disegno che potrebbe emergere. Tuttavia il rafforzamento dell’esecutivo, che sia ad elezione diretta o indiretta, non mi pare sia in sé in discussione. Del pari registro che la pressoché totalità delle forze politiche, ritiene più importante mantenere la neutralità del Presidente della Repubblica che una sua politicizzazione. A mio avviso è un bene: il Capo dello Stato è importante che rimanga garante per tutti e, di fronte a crisi, possa essere quel “motore di riserva”, utile a proteggere il sistema in caso appunto di stallo. Se vista in questa prospettiva un rafforzamento del Presidente del Consiglio può essere perimetrato in modo tale da promuovere comunque quel “cittadino arbitro” della decisione politica, all’epoca indicato da Roberto Ruffilli. Personalmente sono per una via indiretta, tuttavia non mi sconvolge – se fatto bene – neanche una via in forma diretta. L’importante è che non si dimidino i poteri del Capo dello Stato, che per noi deve rimanere fonte preziosa di unità e garanzia sistemica».

Alcuni detrattori, forse esagerando a livello propagandistico, lamentano il rischio di una deriva autoritaria. Crede sia possibile?
«No, non lo credo. Se il percorso sarà fatto con intelligenza, gli Italiani lo capiranno. Sfugge ancora a tanti che si tratta di uno dei popoli più attenti alla dimensione politica del contesto sociale. E conseguentemente è capace di reagire. Io sono fiducioso negli Italiani, se le forze politiche faranno per bene, con impegno, ed intelligenza».

Come pensa si comporterebbero, poi, i nostri alleati e gli Stati Uniti? Difficile infatti pensare che decisioni del genere passino inosservate alla luce del sistema geopolitico in cui è inserita l’Italia, giusto?
«Se l’Italia farà ciò che serve per allinearsi agli standard decisionali degli altri Paesi, penso che tutti saranno più che felici di apprezzare un passo in avanti di un sistema politico-istituzionale che prova da troppi decenni a darsi più stabilità e coerenza decisionale».

Il presidenzialismo, si presume, darebbe più potere all’esecutivo e al suo leader. Ma se anche ciò fosse fluidificante da un punto di vista di azione politica, non rischia ipoteticamente di generare più scollatura tra istituzioni e base elettorale? Pensiamo alla Francia oggi.
«Essendo il presidenzialismo un sistema fortemente conflittuale e divisivo, io penso al contrario che oggi dovremmo sposare invece strumenti politico-istituzionali che favoriscano dialogo e confronto».

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