Che si sia arrivati fino a qui, in Italia, è già un fatto storico. Una riforma della giustizia che supera l’iter parlamentare senza che si scatenino manifestazioni di piazza, scioperi, campagne mediatiche furiose o ripensamenti dentro la stessa maggioranza è qualcosa che negli ultimi decenni non si era mai visto. Già questo basterebbe a rendere significativo il risultato ottenuto dal governo Meloni e, in particolare, dal ministro Nordio.
La riforma introduce due novità centrali: la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, con due CSM distinti, e l’istituzione di un’Alta Corte disciplinare. Si tratta di un cambiamento strutturale, pensato per garantire una maggiore terzietà dei magistrati e per ridurre l’influenza delle correnti all’interno della magistratura, che negli anni hanno consolidato meccanismi di potere interni spesso autoreferenziali.
Non è un mistero che molte delle critiche siano arrivate proprio da chi teme di perdere potere. Le voci più dure contro la riforma si sono concentrate non tanto sui contenuti tecnici, quanto sulla “filosofia” della separazione: si teme che una magistratura meno compatta e meno organizzata possa essere anche meno autonoma.
Ma è altrettanto vero che, nella percezione pubblica, quella stessa organizzazione è stata spesso vista come un meccanismo di potere chiuso, autoregolato, non sempre trasparente. E per questo, la riforma può essere letta anche come un tentativo di restituire fiducia ai cittadini e smontare l’idea di una giustizia “da casta”.
Ora si apre il fronte più delicato: il referendum confermativo. Non sarà una formalità. Sarà un banco di prova politico e comunicativo, soprattutto perché c’è chi – tra oppositori e osservatori – lo sta già leggendo come un referendum sul cosiddetto “circuito mediatico-giudiziario” che per anni ha orientato l’opinione pubblica, costruito processi anticipati e in qualche caso influito sull’equilibrio democratico del Paese.
Per Giorgia Meloni la sfida è complessa, ma gestibile. Primo consiglio, che sembra già essere nelle corde della Premier: non legare mai il destino del governo all’esito del referendum.
Anche se la tentazione di trasformarlo in un plebiscito personale sarà forte, meglio evitare che una consultazione popolare si trasformi in un gigantesco “sì o no” a Palazzo Chigi.
Secondo: spiegare con chiarezza, evitando il tecnicismo, perché la riforma serve davvero ai cittadini – meno potere alle correnti, maggiore efficienza, tempi certi dei processi.
Terzo: mantenere una campagna sobria, che non sembri punitiva verso la magistratura, ma che parli di equilibrio tra poteri e di tutela delle garanzie.
Questa riforma, se confermata, cambierà davvero il volto della giustizia italiana. Ma è anche una prova per la maturità politica del Paese.
Se affrontata con un surplus di intelligenza, può rappresentare uno dei risultati più importanti della Legislatura e di tutta una II Repubblica troppe volte colpita, influenzata, falcidiata, interrotta da una connessione perversa tra parti della magistratura e dell’informazione più schierata.





