Il Governo Meloni ha compiuto tre anni, un traguardo che – come abbiamo già scritto – è tutto fuorché banale nella storia repubblicana. Ma dopo aver celebrato la tenuta politica, la durata istituzionale e la sorprendente compattezza della maggioranza, è il momento di chiedersi cosa ci stia davvero dietro a questa resilienza del consenso.
Perché sì, dopo tre anni di governo non si registrano cedimenti significativi nei sondaggi o nelle elezioni locali. Anzi: Giorgia Meloni resta nettamente in testa nei gradimenti personali e il centrodestra appare competitivo in quasi tutte le prossime sfide regionali.
Eppure, i numeri dell’economia non sono travolgenti. Gli indicatori finanziari rassicurano: lo spread è sotto controllo, i mercati non tremano, i giudizi delle agenzie di rating sono più morbidi che in passato.
Ma la crescita economica è bassa, molto più bassa di quanto servirebbe per trasformare la stabilità in slancio. Non si parla più di “ripartenza”, ma di “tenuta”. E questa Legge di Bilancio 2026 fotografa in pieno il momento: una manovra tecnicamente solida, ma politicamente fredda.
Dentro ci sono aumenti di tasse diffusi e trasversali – su banche, assicurazioni, sigarette, affitti brevi – accanto a una raffica di tagli a fondi pubblici settoriali, dal sociale alla cultura, passando per lo sviluppo industriale.
Una manovra da contabili, non da visionari. Ad ora non c’è una narrazione espansiva, a meno che non si assista ad un plot twist nel corso dell’esame parlamentare. Eppure, il consenso regge. Com’è possibile?
Le ipotesi sono due. La prima: esiste ancora una fiducia latente nel fatto che “le cose miglioreranno”, che questa fase sia un passaggio tecnico, una prudenza momentanea in attesa di un rilancio. È il credito d’attesa che si concede a chi è percepito come solido e coerente, anche se poco generoso.
La seconda ipotesi – forse più cinica, ma anche più concreta a mano mano che la Legislatura si avvia a conclusione – è che il consenso regga per assenza di alternativa. Chi dovrebbe guidare il cambiamento?
Il centrosinistra non riesce a imporsi né con una leadership chiara, né con una proposta che scaldi. E chi oggi guida l’opposizione, a partire dal M5S, porta sulle spalle il peso di molte delle più discusse misure di aumento della spesa pubblica e del debito degli ultimi dieci anni.
Il risultato? Tutti hanno cose per cui farsi perdonare. Troppe per pensare di vincere senza cambiare radicalmente i protagonisti.
Forse, però, siamo anche di fronte a un fenomeno più profondo: l’economia non scalda più i cuori. Né i tagli né gli aumenti di tasse sembrano smuovere grandi ondate di entusiasmo o indignazione.
Abbiamo vissuto gli anni del “sogno”: quelli della crescita post-pandemia, dei bonus per tutto, della digitalizzazione promessa a ogni angolo. Ora, semplicemente, ci accontentiamo che il sistema tenga, che ci sia un volto noto al comando, una maggioranza che non litiga, una Premier che non urla ma non scompare.
Dalla speranza al acquietamento: l’Italia del 2026 sembra più interessata alla conservazione che alla trasformazione. E Meloni, con la sua postura rassicurante e il suo pragmatismo fiscale, è forse oggi la rappresentazione più adatta a questo nuovo sentimento collettivo: meno sogni, più ordine.





