Giorgia Meloni non deve avere una grande passione per l’economia o comunque per la Legge di Bilancio. Lo si percepiva chiaramente dalla postura tenuta nella Conferenza stampa di presentazione di ieri e dagli argomenti scelti come highlights per illustrarne i contenuti.
Non una sorpresa, a dire il vero, considerato che lo scorso anno non aveva proprio preso parte alla presentazione, 2 anni fa solo un’apparizione fugace e 3 anni fa una presenza più lunga ma solo per l’illustrazione del provvedimento e poco per le domande.
Le potrebbe dare una certa soddisfazione sapere che quella di quest’anno è la penultima Legge di Bilancio della XIX Legislatura e, probabilmente, l’ultima in cui dover dare rilevanza a numeri oggettivamente molto magri.
La “manovra”, come ancora viene chiamata per utilizzare qualche sinonimo a pappagallo, è la più ridotta degli ultimi anni in termini di budget complessivo, è a suo modo storica perché ci consentirà molto probabilmente di uscire da una decennale procedura per deficit eccessivo, infine prosegue in un percorso virtuoso di equilibrio fiscale che ci può far ritenere di avere in Italia un governo da approccio scandinavo.
Un tempo si parlava dei “Paesi frugali” con riferimento a quelle nazioni europee virtuose, tendenzialmente collocate nel Nord dell’Europa, che si opponevano fermamente ai cattivi comportamenti degli Stati spendaccioni, a loro volte dislocati nell’Europa del Sud.
In un’ideale aula scolastica, oggi l’Italia avrebbe fatto numerosi salti dall’ultima alla prima fila, assumendo un ruolo da paese molto frugale e lasciando in fondo all’ultimo banco l’indisciplinata cugina più grande e dall’accento francese.
Tutte buone notizie per le analisi economiche e anche per le tasche dei cittadini, come ormai abbiamo imparato dai tempi dello spread, ma da non esperti facciamo ancora fatica a capire quale sia l’idea di crescita economica sottesa a tutto questo.
Da più parti si iniziano a leggere analisi equilibrate rispetto al fatto che, ad un certo punto, qualcosa di concreto per la crescita andrà fatto.
Tra le pieghe delle tante misure illustrate ieri, spicca il ritorno del super-iper ammortamento per l’acquisizione di beni strumentali all’impresa, a sostituzione del poco efficace piano Transizione 5.0, come al solito tanto decantato dal Ministro di riferimento ma che si è schiantato sugli scogli di una complessità attuativa dovuta anche agli immancabili paletti posti dalla burocrazia europea.
Super e Iper furono una delle migliori intuizioni del Calenda Ministro dello Sviluppo economico ai tempi del Governo Renzi (la sua migliore versione, ad ora) e il loro ritorno è sicuramente una buona notizia, di cui parte del merito si è preso lo stesso Calenda nella veste di “consigliori” occasionale della Premier.
Il loro ritorno è una buona notizia, dicevamo, come altre ve ne sono nella Bilancio, ma se andassimo indietro nel tempo alle precedenti varate dal Governo Meloni faremmo fatica a ricordarne di veramente impattanti sulla crescita. Al punto che, infatti, di vera crescita finora ve n’è stata poca.
Lo ripetiamo per noi stessi e per chi ha la pazienza di leggere: serve fare di più per le imprese in termini di tassazione e di reale incentivazione alla creazione di ricchezza. Favorire la crescita costa molto meno, in prospettiva, che dover intervenire con soldi pubblici per colmare le difficoltà create dalle crisi e poi dall’inflazione.
Sappiamo perfettamente quanta sia la distanza tra l’auspicio e la realizzazione, così come “il meglio è nemico del bene” etc. etc. Ma mancano meno di 2 anni alle elezioni e il tempo dei bilanci si avvicina.
Tra un anno la Legge di Bilancio sarà l’ultima prima delle elezioni e ci aspettiamo che, in quell’ottobre 2026, Giorgia Meloni sia talmente consapevole dell’impatto delle scelte economiche che non solo si presenti in conferenza stampa, ma ci stia tutto il tempo necessario a raccontarle con la sua proverbiale passione.
Sarà un passaggio importante, forse uno degli ultimi mattoni nella costruzione del Meloni II.





