Salute

Europa meno attraente per le farmaceutiche

06
Maggio 2024
Di Gaia De Scalzi

di Paolo Bozzacchi e Gaia De Scalzi

Con più di 350 anni di storia, Merck è la più antica società farmaceutica del mondo. Il Gruppo, presente in 65 paesi, nonostante le enormi difficoltà segnate dall’instabilità dei mercati, ha chiuso i conti 2023 in lieve contrazione. Tuttavia, sfogliando il bilancio, quello che balza agli occhi è la performance della divisione Healthcare, guidata da Peter Guenter, membro dell’executive board arrivato a gennaio 2021. La sua area ha infatti registrato un +8,5% di vendite nette. Oltre ad aver saputo intercettare i bisogni insoddisfatti dei pazienti, la strategia del nuovo CEO ha valorizzato ulteriormente uno dei pilastri di Merck, ossia “ricerca e innovazione”.

«Nel settore farmaceutico – racconta Guenter al The Watcher Post – l’aumento della produttività nella ricerca e sviluppo sarà decisivo, permettendo di consegnare nuovi farmaci ai pazienti. Basti pensare al ruolo dell’Intelligenza Artificiale. Prima del suo arrivo fare ricerca era come tentare di trovare un ago in un pagliaio. Si testavano letteralmente diecimila o centomila molecole, sperando che una molecola centrasse il bersaglio e che poi, grazie alla chimica, si potesse migliorare ulteriormente la molecola stessa. Questo con la speranza – dopo i vari step clinici – che potesse diventare un farmaco innovativo. Con l’AI si potranno realizzare delle copie digitali di persone fisiche e simulare un trattamento con i farmaci, comparando i risultati con quelli reali. In questo modo la ricerca sarà meno costosa, più veloce e soprattutto più predittiva.»

A breve si svolgeranno le elezioni per il Parlamento Europeo. Quindi la domanda sorge spontanea: dal suo punto di vista, come vede il sostegno di questa industria da parte dell’Unione Europea in termini di policy e regolamentazione?

«Il mondo globalizzato, così come lo conosciamo, sta crollando. Che ci piaccia o no è quello che sta accedendo. Unione Europea, Cina, Stati Uniti: c’è una competizione tra questi blocchi per l’attrazione degli investimenti. Fino a vent’anni fa le case farmaceutiche investivano più o meno le stesse cifre in Europa e Stati Uniti. Oggi scelgono sempre più spesso gli USA, tanto che l’UE è indietro per investimenti in ricerca e sviluppo di circa 20 miliardi di euro rispetto agli Stati Uniti.»

Come se lo spiega?

«Il primo motivo riguarda la rapidità. Quando un nuovo farmaco arriva sul mercato, le autorità americane determinano velocemente prezzo e rimborso. Inoltre, molto spesso, il costo stabilito permette ad aziende come la nostra di reinvestire nuovamente in ricerca e sviluppo. Se un’azienda farmaceutica deve scegliere dove portare avanti i trial clinici, sceglie un paese dove tutto questo avviene rapidamente e non lentamente.»

Non fa una piega. E il secondo motivo qual è?

«La seconda ragione riguarda la disponibilità di venture capital. In Europa c’è molta ricerca di base, come quella universitaria, davvero ottima. Tuttavia, quando si tratta di passare dalla ricerca di base all’applicazione clinica, ad esempio passando per un’azienda biotech, è molto più facile farlo negli USA. Ad esempio, andando a Boston, o nella Bay Area di San Francisco, per ottenere finanziamenti di serie A. Ad un certo punto, poi, ci si quota anche in borsa, spesso al NASDAQ.»

Quindi in Europa possiamo dire che, ad oggi, non c’è un ecosistema adatto…

«Per essere totalmente onesto, risolvere questa criticità non è un’impresa facile. Nonostante ciò ci sono delle aziende biotech europee che vanno in controtendenza e che sono quotate in Europa. Questo per dire che finanziarsi in Europa è difficile, ma non impossibile. Tornando all’UE, dal punto di vista delle policy, credo che i decisori debbano riflettere su come far rientrare una quota di venture capital in Europa, magari con una defiscalizzazione per coloro che investono in biotech. Ma questa è una cosiddetta “noce difficile da rompere”.»