Politica

Uscire dallo sconfittismo e dal declinismo

02
Gennaio 2023
Di Daniele Capezzone

C’è qualcosa che può unire, nel 2023 appena iniziato, politica e società civile, troppo spesso contrapposte da certa saggistica e certo giornalismo: e invece, sul piano “psico-politico”, potrebbe davvero esserci una positiva missione comune da avviare quest’anno. 

Mi riferisco al tentativo di uscire dal tunnel dello sconfittismo e del declinismo, da una cappa di negatività che da troppo tempo incombe sull’Italia.

Politicamente, mi sono parsi benefici e ben calibrati, nella sua conferenza stampa del 30 dicembre scorso, i riferimenti di Giorgia Meloni all’orgoglio e all’ottimismo come cifre possibili della sua appena iniziata stagione di governo. Lo stesso modo di porre la questione del ridisegno del reddito di cittadinanza mi è parso – in quel contesto – ben costruito: l’idea che il lavoro lo creino le imprese e non lo stato, l’invito ai giovani a mettersi in gioco, la volontà dichiarata dal governo di premiare e aiutare chi vorrà scommettere su se stesso. 

Naturalmente, per ora, sono solo parole. E Giorgia Meloni, da politica accorta e sensibile, sa bene che inizia già a vedersi un decalage, un divario, tra la speranza e la fiducia di cui lei è personalmente destinataria, e qualche timidezza, forse qualche inadeguatezza di una parte della sua squadra di governo, per non dire di una prima legge di bilancio che avrebbe potuto essere più ambiziosa, almeno in prospettiva. Ma quelle parole sono ottime: e descrivono una leader che sembra non darsi l’obiettivo del galleggiamento, della gestione dell’esistente, dell’amministrazione del declino italiano, ma di una possibile scossa psicologica. Solo il tempo potrà dirci se la leader di Fratelli d’Italia riuscirà in un’impresa oggettivamente titanica: ma la disposizione d’animo pare giusta e assolutamente da incoraggiare.

Mutatis mutandis, quello stesso spirito di riscatto orgoglioso dovrebbe cominciare ad attraversare l’intera società italiana. Il problema – intendiamoci – riguarda tutto l’Occidente, ma sta a noi cominciare dal giardino di casa nostra. Nessuno nega le nubi che stanno sopra di noi: preoccupazioni economiche, la guerra, l’ultima coda del Covid. Ma, al netto di questo, rimane il fatto che comunque il destino ci ha dato in sorte l’opportunità di vivere in un momento che resta tra i più positivi della storia umana: per allungamento della vita media, per tenore di vita, per progresso medico e scientifico, per ampiezza delle opportunità di conoscenza e di azione offerte a chi vive da questa parte del pianeta. Possibile che invece – in termini psicopolitici – si abbia spesso la sensazione, frequentando università, luoghi di elaborazione culturale, redazioni, di vivere nel peggiore dei mondi possibili? Possibile che gran parte della discussione pubblica giri intorno al non fare anziché al fare? Possibile che l’approccio sia spesso un mix di insoddisfazione, recriminazione, attitudine a offendersi, ricerca di alibi, colpevolizzazione reciproca? Non so quando e dove sia iniziata questa spirale psicologica: certo, da decenni l’Occidente è anche attraversato da una vena di odio di se stesso, di scarsa fiducia nel nostro esperimento (storicamente giovane: appena un paio di secoli abbondanti) di liberaldemocrazia e libero mercato. Occorre che anche culturalmente e socialmente – pur senza ingenuità, senza ottimismi fasulli, senza superficialità – si recuperi un approccio meno negativo, meno autopunitivo, meno paralizzante. Nella grande corsa della storia, nel legame – avrebbe detto Burke – tra i morti, i viventi e i non ancora nati, questa parte del mondo è comunque la più fortunata: ha sulle spalle il peso più leggero e porta in mano un testimone di valori luminosi. Sarà il caso di ricordarcene, e anche di sorridere un poco nell’affrontare le prossime sfide. 

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