Politica

Ma che succede all’UE?

09
Marzo 2021
Di Daniele Capezzone

Se a un fallimento conclamato (il ritardo e l’inefficacia del piano di acquisto dei vaccini centralizzato da parte di Bruxelles) si aggiungono pure alcuni clamorosi infortuni politici e di comunicazione, il bilancio è davvero sconfortante.

Qualche settimana fa, con una mossa antibritannica inspiegabile, una sorta di fallo di frustrazione, l’Ue cercò di fermare il transito di vaccini dalla Repubblica d’Irlanda all’Irlanda del Nord: seguirono scuse imbarazzate. La scorsa settimana, dopo il ruggito rappresentato dallo stop a una partita di vaccini dall’Italia all’Australia (250mila dosi), è arrivato il belato della supplica rivolta agli Usa per avere milioni di dosi (sempre Astrazeneca), con relativa e prevedibile fredda risposta statunitense: quale che sia il colore di un’amministrazione americana, nessuno si sogna infatti di far regali ad altri, nemmeno ad alleati e partner, se il processo di vaccinazione domestica non è stato prima completato.

Insomma, l’Ue appare spaesata e nel caos: nei giorni pari, tenta la carta del sovranismo vaccinale, in quelli dispari – quando ha bisogno – recita il mantra della cooperazione multilaterale.

Forse tuttavia il problema è più di fondo, e ha a che fare con le prove non brillanti fornite da quasi quindici anni da Bruxelles ogni volta che si è determinata un’emergenza globale: la crisi finanziaria innescata nel 2008, l’emergenza migratoria del 2014-15, e ora la crisi pandemica del 2020-2021.

E’ come se tutta l’architettura Ue fosse stata disegnata pensando di aver a che fare – meteorologicamente parlando – con un tempo bello stabile, quando invece i meccanismi istituzionali vanno pensati immaginando che essi debbano confrontarsi con uno stress test, con una crisi, con sollecitazioni forti e drammatiche. Ogni volta che quella sollecitazione è arrivata, la risposta è stata purtroppo tardiva e insoddisfacente. A pensarci retrospettivamente, perfino una crisi piccolissima e – si potrebbe dire – “condominiale” per dimensioni, cioè la crisi greca, diversi anni fa, ovvero un evento che coinvolgeva una percentuale minima del Pil europeo, è stata affrontata in modo abborracciato e discutibile.

Torna alla mente il discorso – anticipatorio e preveggente – tenuto nel 1988 da Margaret Thatcher a Bruges, quando mise in guardia dalla deriva che l’allora Comunità europea stava prendendo. Disse la Lady di ferro che si stavano confondendo i fini e i mezzi, e che per qualcuno l’unione stava diventando un obiettivo in sé.

Lasciamo la parola alla Thatcher: “La Comunità non è (ndr, intendeva ovviamente: non dovrebbe essere) un fine in sé. Né è un marchingegno istituzionale da modificare costantemente in ossequio ai dettami di qualche concetto intellettuale astratto. Né dovrebbe essere ossificata da una regolamentazione senza fine. La Comunità europea è un mezzo pratico attraverso il quale l’Europa potrebbe assicurare la futura prosperità e sicurezza dei suoi popoli in un mondo in cui ci sono molte altre potenti nazioni e gruppi di nazioni. Non possiamo permetterci di sprecare energie in dispute interne o in arcani dibattiti istituzionali”.

Com’è evidente, qualcuno ha fatto esattamente il contrario: confuso mezzi e obiettivi, si è aggrovigliato in dibattiti tutti istituzionali e di forma, smarrendo la sostanza, e cioè la ricerca delle soluzioni concrete più utili ai cittadini.

Forse, senza approcci estremi, è venuto il momento di una riflessione di fondo che privilegi il completamento del mercato europeo rispetto all’inseguimento di forme istituzionali eccessivamente integrate, faccia prevalere la competizione fra soluzioni diverse rispetto alle risposte dirigiste e centralizzate e renda il dibattito sull’Ue una questione più pragmatica e meno “religiosa”.

Photo Credits: I-Com, Istitituto per la Competitività