Politica

Dibattito per ora asfittico sul Recovery Plan

28
Aprile 2021
Di Daniele Capezzone

Ammetto il pregiudizio: non ero e non sono tra i più entusiasti dell’intera operazione europea sul Recovery Fund. Magari (spero) erroneamente, ne percepisco soprattutto i rischi: un’idea di sviluppo essenzialmente legata agli investimenti pubblici (e quindi alle decisioni politiche), e una (più o meno consapevole) spinta verso l’omogeneizzazione fiscale. Come dire: se è a Bruxelles che si decide sul lato della spesa, ancora a Bruxelles si tornerà a decidere pure sul lato delle entrate per finanziarle. Con tanti saluti alla competizione fiscale e a una gara virtuosa tra paesi e territori per abbassare i livelli di tasse e regolazione. C’è già chi ha puntato le sue carte su questo scenario: è il tedesco Olaf Scholz, uomo di punta dell’Spd e ministro delle Finanze tedesco.

Ancora sul lato delle perplessità. Venendo all’Italia, se si prende l’intera torta dei fondi a noi destinati (a fondo perduto oppure come prestito) e si toglie tutto ciò che dobbiamo restituire, oltre a ciò che dobbiamo versare come contributo all’Ue, la parte netta resta di circa 40 miliardi, da spalmare su 6-7 anni. Come si possa ritenere che tutto ciò (quindi tutto sommato una somma esigua) sia decisivo per il nostro futuro, a me sfugge. Come mi sfugge quale parentela abbiano le priorità “green” e “digitale” con la reale natura dell’economia italiana e con il nostro tessuto di piccole e piccolissime imprese. E naturalmente spero ancora di sbagliare grossolanamente.

E lascio da parte anche la clamorosa farraginosità del meccanismo: le erogazioni di denaro soggette a un esame costante da parte di Bruxelles, senza dire dell’immensa alea rappresentata dall’odioso meccanismo dell’”alert”, che (i dettagli non sono ancora noti) potrà consentire a un paese di mettere in questione e posticipare i pagamenti verso un altro paese i cui progetti non appaiano convincenti.

Ma voglio togliere dal tavolo tutti questi dubbi, queste obiezioni, magari questi pregiudizi, come accennavo. E’ ormai un fatto che un Recovery Plan ci sia, e che Mario Draghi abbia su questo impegnato la sua personale credibilità anche nella non facile interlocuzione con l’Ue nello scorso fine settimana. E dunque accettiamo di giocare con le carte disponibili, con doveroso realismo.

Anche in questa prospettiva pragmatica, tuttavia, mi pare che ci siano ancora almeno tre criticità, che sarebbe interesse di tutti non negare e affrontare a viso aperto.

La prima: nel Pnrr non c’è un’idea forte, una direzione di marcia chiara, una bussola spiegabile all’opinione pubblica e capace di orientare l’impegno del paese per alcuni anni. Si vede un elenco di opere da realizzare (moltissime, di grande utilità), più il solito zibaldone (abbastanza vago per non scontentare i partiti) sulle cosiddette “riforme”.

La seconda: finora, il contributo dei partiti è stato letteralmente disarmante per la sua povertà. Qua e là, ci si è limitati a difendere la propria “bandierina”, o il paragrafetto del Pnrr che serviva il mattino successivo per rilasciare un’intervista cantando vittoria. Tutto qui. Non una visione del paese, né una menzione (da nessuna parte, ahinoi) della parte che manca, cioè dell’attenzione al settore privato, a ciò che sta fuori per definizione dal Recovery e dall’intervento pubblico, e cioè la necessaria creazione di un ambiente fiscale e regolatorio favorevole al contributo privato alla ripresa dell’economia.

La terza: non rassicura che i temi fiscali siano stati sostanzialmente posposti. Essendoci una massa di prestiti da ripagare, forse sarebbe il caso di far sapere sin da ora agli italiani che intenzioni abbiano governo e partiti su questo argomento. Nel mondo, a partire dagli Usa, tira una pericolosa arietta di rialzi fiscali, curiosamente sottovalutata da molti nella convinzione che gli aumenti di tasse riguarderanno qualcun altro. Sta qui la madre di tutti gli errori.

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