Politica
Referendum, perché è ora di cambiare: la visione di Dario Parrini
Di Giampiero Cinelli
I referendum abrogativi dell’8 e 9 giugno hanno innescato un ampio dibattito sul futuro da dare a questo istituto di democrazia diretta. Nell’opinione pubblica c’è chi addirittura propugna l’abolizione del quorum e chi invece, specie tra le forze politiche, ha ragionato pubblicamente su una possibile revisione dei meccanismi, da rendere in armonia con il contesto sociale odierno. Il Partito Democratico è stato tra i sostenitori dei cinque quesiti. Al suo interno ha personalità esperte di materia costituzionale. Che già da tempo si occupano delle questioni inerenti al rapporto tra istituzioni e cittadini. Uno è certamente il Senatore Dario Parrini, Vicepresidente della Commissione Affari Costituzionali al Senato, il quale una proposta per modificare l’iter del referendum l’aveva fatta. Gli abbiamo chiesto di delineare il suo punto di vista.
Ci spieghi il senso della sua proposta di revisione del Referendum, caratterizzata dall’incremento a 800mila firme e dall’ancoraggio al numero dei votanti delle scorse politiche
«Prima di tutto vorrei chiarire che l’idea “abbassare il quorum, alzare le firme” non è un’idea estemporanea occasionata dall’esito dell’ultimo referendum. Si tratta di una proposta di antica data. Già la fece la commissione bipartisan di esperti nominata dal Governo Letta nel 2013. Poi è stata ripresentata più volte senza successo. Il mio ddl, addirittura, risale al 2021. Quindi chi afferma che è una risposta di corto respiro a una sconfitta elettorale semplicemente afferma il falso. Il quorum va abbassato per ragioni di buonsenso: quando nel 1947 per il referendum abrogativo venne messa l’asticella della metà più uno degli eletti c’era un’affluenza media alle elezioni del novanta per cento. Il significato della scelta era chiaro: una legge esaminata da un Parlamento che rappresenta 9 elettori su 10 passa se l’ha approvata una maggioranza parlamentare che rappresenta grosso modo almeno 4.5 elettori su 10. Una legge così tanto “rappresentativa” può essere abrogata in tutto o in parte solo se i partecipanti al referendum assommano ad almeno la metà degli elettori più uno. Ma oggi questa situazione non esiste più. Alle ultime politiche l’affluenza è stata poco più del 60 per cento. La maggioranza parlamentare che approva le leggi rappresenta, per voti ricevuti, un quarto appena degli aventi diritto. E quello è il livello di rappresentatività delle leggi che fa passare. Allora ci si domanda: perché mai per cambiare leggi rappresentative della volontà di un quarto degli italiani adulti devo mettere uno scalino pari alla metà più uno della popolazione avente diritto al voto? È una cosa sproporzionata, che colpisce al cuore lo strumento del referendum come strumento di valorizzazione della volontà popolare. Meglio, col contrappeso di un aumento delle firme, mettere un quorum referendario mobile, legato all’affluenza effettiva alle elezioni che esiste in una data epoca».
L’ultimo referendum, così come i più recenti andati a vuoto, era troppo tecnico? Questo istituto ha bisogno di quesiti di ampio respiro?
«A mio avviso più la questione sollevata dal referendum è chiara e di portata generale, più è probabile raggiungere il quorum. Al di là delle opinioni di merito che ognuno di noi aveva, è evidente che gli unici due referendum che negli ultimi trent’anni hanno registrato un’affluenza superiore alla metà degli aventi diritto – quello abrogativo del 2011 su nucleare e gestione pubblica del servizio idrico; quello confermativo del 2020 sulla riduzione dei parlamentari – erano referendum con contenuti a tutti facilmente comprensibili e portatori di una potente spinta a schierarsi da una parte o dall’altra».
L’astensione come elemento che pesa ai fini dell’esito ha ancora senso? Se sì perché?
«Deve essere ridotto lo spazio di manovra di chi gioca di furbizia sull’elevato livello di astensione strutturale (circa il 40% alle politiche, circa il 50% alle comunali) per svuotare uno strumento democratico previsto dalla Costituzione. Si deve agire con equilibrio e tenendo conto delle innovazioni. Per esempio, l’apertura alla modalità digitale per le firme consente di bilanciare la riduzione del quorum partecipativo con un innalzamento del quorum di firme».
In generale, al di là dei fattori che non hanno giovato agli ultimi referendum, questo strumento sembra oggi in crisi, dato il contesto. Va ancora supportato? Giusto credere nelle consultazioni dirette?
«Gli strumenti di democrazia deliberativa, usati in modo incisivo e equilibrato, sono preziosi: arricchiscono la democrazia rappresentativa».
Sembra proprio che in Italia il prossimo referendum popolare sarà sulla separazione delle carriere dei giudici, norma contenuta nella riforma della giustizia del centrodestra. Pensa che la consultazione ci sarà?
«È una certezza. La maggioranza sta andando avanti a rullo compressore sulla riforma cosiddetta della giustizia ma che in realtà è non una riforma del sistema giudiziario bensì una riforma contro l’autonomia e l’indipendenza del potere giudiziario dal potere esecutivo. Quindi una riforma pericolosa, perché è una riforma distruttiva degli equilibri di potere tra organi dello Stato che costituiscono uno dei principali pilastri della nostra Costituzione e della nostra democrazia. Nella seconda lettura che ci sarà nelle due camere entro l’autunno il centrodestra non avrà un numero di sì pari ad almeno due terzi dei componenti ciascun ramo parlamentare. Quindi si potrà chiedere un referendum confermativo e di sicuro sarà chiesto. E quindi si andrà a votare un referendum confermativo nella primavera 2026. Ma sarà appunto confermativo e non abrogativo. Cioè senza quorum. Chi vorrà difendere la legge approvata in Parlamento dovrà portare le persone a votare e non potrà speculare sull’astensione. Sarà quindi una competizione politica molto più corretta di quella dell’8 e 9 giugno scorsi in cui uno dei due contendenti, a causa delle regole del gioco, ha dovuto correre con una mano legata dietro la schiena».





