Il primo dato, impietoso, è il più semplice: non si è raggiunto il quorum. L’ennesimo fallimento di un referendum abrogativo, in Italia, non fa più notizia. Eppure, ogni volta si porta dietro nuove delusioni e vecchie responsabilità. Soprattutto quando i promotori sono (o dovrebbero essere) i rappresentanti di un campo progressista in teoria ancora vivo.
L’astensione massiccia non è un incidente: è il frutto di un progetto debole, diviso, autoreferenziale. E lo si è capito fin dall’inizio. Il quesito principale, quello che doveva segnare la discontinuità col Jobs Act – bersaglio simbolico della sinistra post-renziana – era tecnicamente complesso, oscuro per i non addetti ai lavori. E infatti, più che un referendum popolare, ha finito per sembrare una resa dei conti interna al centrosinistra: un regolamento di conti tra sindacati, intellettuali, pezzi di partito. Non una mobilitazione, ma una discussione da circolo.
Poi c’è stata la scelta – improvvida – di affiancare al pacchetto sul lavoro il referendum sulla cittadinanza. Un tentativo, forse, di allargare il perimetro politico, di rianimare una campagna spenta. Ma l’effetto è stato devastante. Quel quesito è stato percepito come un’aggiunta tardiva, strumentale, quasi disinteressata: un’operazione di bandiera più che un obiettivo autentico. Lo dimostra un dato clamoroso: c’è un 20% di differenza tra i voti favorevoli ai primi quattro quesiti e quelli raccolti dal quinto. Segno che il centrosinistra dovrebbe interrogarsi non solo sul proprio futuro, ma anche sulla scelta di inseguire Landini rinunciando a ogni sintesi con l’ala riformista.
Dal canto suo, Giorgia Meloni e i suoi non si sono limitati a ignorare il referendum, ma hanno apertamente sostenuto l’astensione. Scelta legittima, certo, ma che svuota lo strumento referendario della sua funzione democratica, trasformandolo in una conta sterile, più simile a una battaglia simbolica che a un confronto reale su contenuti e proposte. È un riflesso ormai consolidato: la partecipazione non è più considerata un valore. Al contrario, è vista come un fastidio da evitare.
Ma la vera sconfitta, questa volta, è tutta del centrosinistra. L’area politica che più dovrebbe investire su strumenti di partecipazione diretta si è presentata divisa, confusa, priva di una visione comune. I sindacati, invece di unire le forze, si sono contrapposti: Landini ha lanciato l’iniziativa ma non è riuscito a compattare nemmeno il mondo confederale. Il Partito Democratico di Elly Schlein, a sua volta, ha oscillato tra un sostegno tiepido e un silenzio imbarazzato. Preso in ostaggio da posizioni populiste e incapace di tenere insieme una linea, ha finito per restare spettatore di un processo che, almeno sulla carta, avrebbe dovuto guidare.
La verità è che nessuno ci ha creduto davvero. Nessuno ha provato a trasformare questa occasione in un terreno di rilancio politico, in un momento di mobilitazione collettiva. E i cittadini, giustamente, non hanno risposto a un appello che sembrava più un compitino che una battaglia di principio.
C’è, infine, una riflessione più ampia da fare. Finché resterà il quorum – una soglia irraggiungibile in un’epoca di disillusione e disintermediazione – il referendum abrogativo resterà una trappola. Per chi lo propone e per chi lo subisce. È tempo di rivedere le regole, di pensare a nuovi meccanismi di partecipazione, di aggiornare gli strumenti alla realtà. Altrimenti, continueremo a raccontare – con stanchezza e rassegnazione – l’ennesimo fallimento annunciato.
