Politica

Oltre al “territorio” e alla “identity politics”, qual è l’idea di politica e di paese del Pd? 

05
Dicembre 2022
Di Daniele Capezzone

A meno di sorprese, per la guida del Pd, nella corsa che è appena iniziata e che condurrà quel partito alle primarie di febbraio, si fronteggeranno da un lato Stefano Bonaccini (con il supporto di Dario Nardella e di una fitta rete di sindaci e amministratori) e dall’altro Elly Schlein (a sua volta sostenuta da un gruppo significativo – per quanto culturalmente eterogeneo – di dirigenti dem).

Lascio da parte la logica dei retroscena: e cioè ogni considerazione su quanti tifino Bonaccini più per forza che per amore (e cioè più che altro presumendo che si tratti del grande favorito della vigilia) o su quanti della vecchia guardia Pd supportino Schlein con il retropensiero di farne lo schermo (pur “di moda”) per la conservazione di schieramenti antichi e correntizi. 

Mi soffermo invece su quanto sta evidentemente davanti alla scena. Bonaccini si connota come un candidato “di territorio”: e però, come ha rispettosamente ma criticamente osservato nei giorni scorsi Ernesto Galli della Loggia, è illusoria l’idea di un richiamo alle regioni e ai comuni come a una dimensione salvifica. In primo luogo, perché non è tutto oro quello che luccica a livello locale; e in secondo luogo, perché ciò che si richiede a un leader politico nazionale sono attitudini ben diverse rispetto agli skills di cui è dotato un amministratore territoriale. 

Quanto a Schlein, qualunque cosa dica o faccia da qui a febbraio, sarà comunque il suo identikit culturale a prevalere su ogni altro aspetto: il suo posizionamento molto a sinistra, ecopacifista, molto connotato sui temi gender, e così via. Insomma, nella migliore delle ipotesi, delle rispettabilissime battaglie di minoranza; nella peggiore, delle battaglie di minoranza portate avanti con una logica e un linguaggio ancora più minoritari, senza nemmeno l’ambizione di provare a rivolgersi a maggioranze sociali più vaste. 

La sensazione è che dalle parti di Largo del Nazareno non abbiano messo a fuoco il cuore della questione. Per guidare quello che dovrebbe essere il principale partito di opposizione, e dunque una forza che legittimamente ambisca al governo la prossima volta, non può bastare né la dimensione locale del “fare” né tantomeno quella della identity politics. Servirebbe invece la “politica”, un profilo culturale capace di parlare a un numero di italiani più grande rispetto a quelli iscritti (o potenzialmente “iscrivibili”) al Pd, l’individuazione di una politica delle alleanze non asfittica, l’elaborazione di due-tre priorità traducibili in immediata iniziativa in Parlamento e nel paese. Di questo – per ora – non c’è traccia. E invece ci auguriamo che qualcosa accada: perché una democrazia in salute ha bisogno di una opposizione credibile e competitiva.