Politica

Non basta brillare. La reputazione si costruisce. E si misura: parla il Commissario Vattani

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Luglio 2025
Di Ilaria Donatio

(Intervista pubblicata su L’Economista, inserto de Il Riformista)
Non è (solo) questione di estetica. Per l’Italia, giocarsi la reputazione all’Expo 2025 di Osaka significa misurarsi con una sfida più complessa: farsi percepire come sistema credibile, non solo come patria del bello. Lo sa bene l’ambasciatore Mario Vattani, Commissario Generale per l’Italia all’Esposizione universale in Giappone, che ogni giorno osserva come il nostro Paese viene visto da fuori.

«L’Italia è ammirata nel mondo per la cultura, i territori, l’originalità e la qualità altissima dei suoi prodotti» spiega. Ma è un’immagine parziale, “filtrata” e stereotipata. E soprattutto, non è sufficiente: «Se vogliamo ampliare questa visione e rafforzare le collaborazioni industriali ed economiche, dobbiamo fare qualcosa di più. E l’Expo è l’occasione perfetta».

Per Vattani, la reputazione non si improvvisa. Si costruisce con metodo, contenuti solidi e una strategia di lungo periodo. «Il vero vantaggio competitivo oggi, in un mondo dove tutti parlano di dazi e intelligenza artificiale, ce l’ha chi inventa qualcosa di originale, chi collabora e dimostra di essere a un livello alto. Non basta dire che siamo bravi: dobbiamo mostrarlo, ogni giorno».

Uno dei modelli da cui prendere esempio è proprio il Giappone. «È un Paese manifatturiero come noi, ma con cui abbiamo rapporti storici e profondi. Ci conoscono davvero, anche per la qualità della nostra meccanica, dell’acciaio, della tecnologia. E il resto dell’Asia guarda proprio al Giappone per decidere cosa è un prodotto di qualità».

Per questo è essenziale raccontare bene cosa c’è “dietro” un prodotto italiano: «Può essere una storia, una tradizione, o un livello di ricerca e controllo altissimo. La percezione diffusa di un Paese ha un impatto concreto anche sulle scelte industriali: un partner compra tecnologia italiana se è convinto che siamo capaci di produrla. Ed è questo il tipo di fiducia che dobbiamo costruire».

Non è facile, aggiunge, uscire dagli stereotipi. E spesso siamo noi i primi a perpetuarli: «Quando raccontiamo un’Italia pigra, ritardataria, simpaticamente imperfetta, rischiamo di condannarci a una narrazione limitante. Ma se dimostriamo, ad esempio, che un padiglione italiano apre puntuale, funziona perfettamente e comunica innovazione, allora rompiamo quello schema. Soprattutto in un contesto come il Giappone, dove l’attenzione al dettaglio è altissima».

Non tutto, però, si gioca sulla scena. C’è anche un lavoro sommerso, strutturato e coordinato. E qui, sorprendentemente, l’Italia delle Regioni si è rivelata un punto di forza. «Abbiamo coinvolto 18 Regioni su 20: ciascuna porta aziende, università, tecnologie. Ognuna si impegna perché sa che deve dimostrare risultati. Questo ha creato una moltiplicazione di eventi, incontri, promozione. Ogni settimana inauguriamo qualcosa di nuovo: nessun altro Paese lo sta facendo così».

Ma funziona solo se c’è metodo: «Serve una regia centrale, uno schema condiviso. Altrimenti vince il caos e si ritorna all’Italia sfilacciata. Invece qui, grazie a una strategia concordata con la Conferenza delle Regioni, tutti hanno lo stesso spazio e le stesse regole. È quasi un modello di democrazia reputazionale».

L’Expo, quindi, non è solo vetrina: è palestra, osservatorio e test. Ed è anche un’occasione per imparare. «Il Giappone ci costringe a usare un metodo, e questo ci fa bene. Esporre i nostri studenti, le imprese, gli accademici a un contesto così rigoroso è una lezione per tutti. E ci aiuta a vedere quanto in realtà siamo capaci, anche meglio di altri. Serve solo crederci e organizzarsi».

Una reputazione, in fondo, è fatta di coerenza e credibilità. Non basta piacere: bisogna convincere.