Politica

Moda, l’Italia chiede all’Europa regole comuni sull’import a basso costo. Pietrella: «Così riportiamo equilibrio»

28
Novembre 2025
Di Ilaria Donatio

(Intervista pubblicata su L’Economista, inserto de Il Riformista)
Negli ultimi anni il boom del fast fashion extra-UE ha trasformato il mercato dell’abbigliamento, comprimendo i prezzi e mettendo sotto pressione migliaia di micro, piccole e medie imprese italiane. Mentre Bruxelles discute l’abolizione delle esenzioni doganali sui pacchi sotto i 150 euro, in Italia c’è chi chiede di accelerare: tra questi, il deputato Fabio Pietrella (FdI), che da mesi insiste sulla necessità di riportare condizioni di concorrenza eque tra chi produce nel nostro Paese e chi importa dall’estero a costi molto ridotti.

Perché aumentare la tassazione sul fast fashion extra-UE? Qual è l’ingiustizia di fondo che penalizza le nostre imprese?

«Perché oggi non competiamo ad armi pari. Le nostre imprese rispettano norme sul lavoro, sugli standard ambientali e sui costi energetici, mentre molti prodotti extra-UE entrano con dazi e IVA ridotti o nulli, senza tracciabilità e a prezzi che non riflettono i costi reali. Questo non è libero mercato: è concorrenza sleale che brucia filiere, margini e posti di lavoro. Il Made in Italy non può competere con chi produce senza regole».

Una tassa da 2 euro sui pacchi fast fashion è sufficiente o serve un sistema più strutturato?

«È un passo utile ma non risolutivo. La tassa elimina la distorsione della franchigia, ma va accompagnata dalla rimozione dell’esenzione sotto i 150 euro, da controlli doganali più rapidi e rigorosi, da regole di tracciabilità per le piattaforme e da misure di sostegno per le nostre PMI. Una sola misura non cambia il quadro: serve un impianto complessivo che l’Ecofin ha iniziato a delineare».

In che modo le asimmetrie doganali e fiscali distorcono la concorrenza?

«I prodotti extra-UE di basso valore entrano spesso senza IVA né dazi, le piattaforme possono assorbire i costi logistici e la produzione avviene con costi del lavoro e standard ambientali molto inferiori. Questo consente prezzi irrealistici che annullano la competitività delle imprese italiane, generando perdita di ordini e delocalizzazione».

Non rischia di pesare sui consumatori, soprattutto giovani e famiglie?

«L’impatto sul singolo acquisto è modesto. Ma il problema vero è il consumo compulsivo di capi a bassissimo costo che durano pochissimo e portano ad acquisti continui. Alla lunga danneggia proprio chi ha meno risorse. La politica deve accompagnare la misura con incentivi sulla qualità, agevolazioni per riparazioni ed eco-riparazioni e strumenti mirati per le fasce più fragili. Non è punire il consumatore: è tutelare la sua possibilità di scegliere prodotti migliori».

Come può un intervento sul fast fashion proteggere filiere, lavoro e Made in Italy?

«Riducendo il vantaggio delle pratiche sleali, gli ordini tornano verso i produttori locali. Questo permette di investire di più in qualità, formazione, innovazione e sostenibilità. Proteggere la filiera significa anche favorire l’aggregazione delle PMI, il ricambio generazionale e la lotta alla contraffazione. Il Piano Italia Moda nasce esattamente per sostenere questo percorso».

L’Europa sta prendendo sul serio il tema? L’Italia può anticipare le nuove regole sui pacchi sotto i 150 euro?

«Sì, l’accordo politico in Ecofin mostra che l’UE ha capito l’urgenza. L’Italia può anticipare applicando controlli più efficaci, introducendo tracciabilità obbligatoria, sanzioni ai marketplace che eludono le regole e misure di accompagnamento per le imprese. Anticipare non significa agire in modo caotico: significa costruire uno standard nazionale credibile che può diventare esempio anche per gli altri Paesi».

La proposta è solo economica o c’è anche un tema di sostenibilità?

«È entrambe le cose. Il fast fashion alimenta un modello usa-e-getta con enormi impatti ambientali. Regole più serie spingono verso prodotti più durevoli, responsabilità estesa del produttore, passaporto digitale e circolarità. Difendere il lavoro italiano significa anche ridurre i rifiuti e proteggere l’ambiente».

A chi sostiene che state punendo l’e-commerce, cosa risponde?

«Che è un errore di lettura. Non colpiamo l’e-commerce: colpiamo le pratiche sleali. Chi opera correttamente non ha nulla da temere. Vogliamo un mercato digitale trasparente, con tassazione equa, controlli seri e responsabilità sulla filiera. Le piattaforme che rispettano le regole devono essere alleate, non penalizzate».