Politica

I parlamentari “putiniani” disertano Zelensky. Il caso Petrocelli. E gli altri.

23
Marzo 2022
Di Ettore Maria Colombo

I putiniani d’Italia si nascondono come cecchini, dentro palazzi abbandonati e macerie fumanti, o meglio – come disertori e renitenti alla leva – preferiscono colpire il nemico con la forza delle loro parole. Parole che vorrebbero essere di buone intenzioni – di cui, come si sa, è lastricata la strada dell’Inferno – ma che in realtà si traducono in una resa al nemico più grosso, quello rappresentato dall’esercito invasore russo. Sono una piccola, ma compatta, legione, i putiniani d’Italia, ma tirano colpi ben assestati. E non riescono a intenerirsi, a cacciare neppure una lacrimuccia, se il presidente ucraino prova a parlare loro con il cuore in mano, invitando alla lotta, come ha fatto ieri davanti al Parlamento.

Il discorso di Zelensky davanti al Parlamento

«Il nostro popolo è diventato l’esercito. Immaginate Mariupol come una Genova completamente bruciata. Come una città da cui scappano le persone per raggiungere i pullman per stare al sicuro. Il prezzo della guerra è questo: 117 bambini uccisi. Non accogliete i russi in vacanza in Italia, inasprite le sanzioni» ha detto il presidente ucraino Volodymyr Zelesky nel suo discorso (di circa 15 minuti) in video-collegamento con deputati e senatori riuniti alla Camera. Un intervento accolto da un applauso e preceduto dalle parole dei presidenti di Montecitorio e Palazzo Madama, Roberto Fico («Testimoniamo nel modo più solenne la vicinanza e il sostegno di tutto il Parlamento e del popolo italiano all’Ucraina») ed Elisabetta Casellati («Esprimiamo ammirazione per il coraggio del popolo ucraino e confidiamo in una soluzione negoziale»). In Aula anche il premier Mario Draghi, che ha dichiarato: «La resistenza di tutti i luoghi in cui si abbatte la ferocia del presidente Putin è eroica». Le parole del premier ucraino sono state interrotte da 10 applausi e una standing ovation finale dei presenti in Aula. Ma i putiniani italiani non hanno affatto apprezzato.

Le troppe assenze in Aula durante la seduta

Sono state diverse, infatti, le assenze in Aula per il video-collegamento con Zelensky. L’emiciclo, innanzitutto, non era certo stracolmo, con alcuni banchi vuoti nella parte alta degli scranni e in tribuna, dove dovevano sedere i senatori. E se la seduta informale del Parlamento italiano ha visto la calorosa presenza di molti deputati e senatori, che hanno tributato a Zelensky due lunghi applausi, all’inizio dell’intervento e alla fine, e due standing ovation e nessuna nota di dissenso in Aula – anzi non sono mancate le manifestazioni di solidarietà al popolo ucraino con bandiere, coccarde, abiti e spillette di colore giallo-blu – il dissenso dei putiniani si è consumato al di fuori dell’emiciclo.

La contrarietà di diversi esponenti del M5s (e di molti ex M5s poi confluiti in altri gruppi o componenti del Misto, da L’Alternativa a Italexit) a far intervenire Zelensky a Camere riunite è stata manifesta, anche con accenti e parole iperboliche.

Non essendo una seduta formale, e soprattutto non essendoci votazioni, non c’è stata alcuna registrazione ufficiale delle presenze e delle assenze, né tantomeno delle missioni, ma secondo alcuni segretari d’Aula si aggirerebbero intorno a quota 300-350 (tante, troppie per un intervento storico) le assenze di deputati e senatori.  

Vuol dire che in Aula ad ascoltare prima Zelensky e poi Draghi sarebbero stati presenti circa 600 parlamentari, più o meno, su 945.

Da chi era composto il battaglione di assenti

Chi era sicuramente assente sono i 15 deputati di Alternativa, la componente del Misto formata per lo più da ex M5s. Alternativa lo aveva annunciato pubblicamente nei giorni scorsi. Assenti anche i 4 senatori del gruppo Italexit: «Oggi il gruppo Italexit per l’Italia non si è recato in aula ad ascoltare l’intervento di Zelensky perché il presidente ucraino non è un ambasciatore di pace», hanno detto, piccati, Gianluigi Paragone, William De Vecchis, Mario Giarrusso e Carlo Martelli. Se ne deduce che Zelensky venga ritenuto, dai medesimi, «un ambiasciatore di guerra»…  Tra gli assenti certificati anche l’ex M5s Elio Lannutti («io assente, l’invio di armi prolunga il massacro del popolo ucraino», le sue parole) e l’ex M5s Bianca Laura Granato. Assente anche il leghista Simone Pillon, impegnato all’estero (sic), e il pentastellato Gianluca Ferrara, capogruppo M5s in Commissione Esteri al Senato, a Doha per una visita istituzionale. Assente, annunciato, l’azzurro Matteo Dall’Osso (ex M5s). Assente anche il presidente della commissione Esteri di palazzo Madama, Vito Petrocelli, sul quale è scoppiata la bufera dopo le sue parole sulla necessità che il Movimento lasci un governo “interventista”. Sarebbero circa una trentina (su 73 che compongono il gruppo) i senatori M5s assenti.

I parlamentari di Forza Italia assenti per l’intervento del presidente ucraino in Parlamento «sono parlamentari in missione, non è che disertano», assicura Antonio Tajani, ma le missioni (cioè gli assenti giustificati) ieri non venivano contati, quindi la giustificazione è speciosa. «Alcuni ex 5 stelle ora in Forza Italia non c’erano? Sono ex 5 stelle, non è quella la nostra linea politica», aggiunge. «Io giudico i presenti, parlate con gli assenti di tutti i partiti. Pillon è per lavoro a Londra», afferma Matteo Salvini. Il senatore leghista Pillon riferisce di essere nella capitale britannica «per la Fondazione Pro vita. Basta squallide polemiche» (le sue).

Tranchant il segretario del Pd Enrico Letta: «Vengo, non vengo ad ascoltare Zelensky. Indecoroso balletto. Disonorevole scelta». Dalle fila di Pd e FdI, invece, sono i capogruppo a garantire che, i loro gruppi, ieri erano al gran completo. Emma Bonino commenta lapidaria: «Ai parlamentari italiani che non sono in aula dico solo che ne risponderanno ai loro elettori». Ironico Matteo Richetti di Azione: «Vedo tutti molto preoccupati di chi mancava oggi (cioè ieri, ndr.) in aula. Dovreste preoccuparvi del fatto che sono in aula i restanti giorni dell’anno». Appunto.

Il compagno Petrov. Scoppia il caso Petrocelli

Ma il caso che fa più scalpore di tutti è quello di Vito Petrocelli, meglio conosciuto, ormai, come il “compagno Petrov” proprio per le sue posizioni filo-russe, dopo aver assunto, per anni, filo-cinesi e giustificatrici del massacro della minoranza etnica degli uguri. Di professione geologo, lucano, alla seconda legislatura (nella precedente fu presidente del gruppo pentastellato al Senato, primo caso di un capogruppo espulso dall’aula), Petrocelli da leader dei putiniani tuona contro il governo, dice che M5s deve smettere di appoggiarlo ma non ha alcuna intenzione di dimettersi da presidente di commissione, come gli chiedono, ormai, tutti gli altri gruppi parlamentari della maggioranza.

«Penso che per il M5S sia arrivato il momento di ritirare ministri e sottosegretari dal governo Draghi. Questo governo ha deciso di inviare armi all’Ucraina in guerra, rendendo di fatto l’Italia un paese co-belligerante» dice lui con piglio bellico. La sfiducia verso di lui è, ormai, a un passo, come pure, forse, l’espulsione dal Movimento.

I mal di pancia di Conte sulle armi e le divisioni in casa 5Stelle su guerra e Petrocelli

Ieri Conte nella riunione con i big M5s (assente il ministro Di Maio) è stato chiaro e, insieme, ambiguo… «Non è possibile destinare neanche un euro in più all’aumento delle spese militari», ha detto, contraddicendo il voto del M5s sull’aumento delle spese militari al 2% del Pil, perché «ci sono altre priorità, dal caro bollette e dal caro carburante». Una linea molto diversa da quella del gruppo M5s a Montecitorio e che ha creato una spaccatura interna, specie con l’ala legata a Di Maio, schierato su una linea atlantica.

Dentro i gruppi parlamentari M5s in molti non nascondono il proprio malessere per una posizione considerata troppo dura di Draghi che potrebbe ancor di più provocare tensione nel voto di palazzo Madama, dove il decreto sugli aiuti militari è ancora atteso, da parte dell’Aula.

Poi, appunto, c’è il caso Petrocelli, che ha invitato M5s ad uscire dal governo e ha già detto che non voterà il dl Ucraina al Senato. «Conte – è il pressing che aumenta nel Movimento – deve cacciarlo, così ci scredita». I vertici hanno preso tempo, attendono il voto di fiducia al Senato. Conte si limita a dire che «Se lui dichiara questo evidentemente si pone fuori dal Movimento 5 Stelle per scelta personale, fraintende la linea».

Ma la vera preoccupazione dell’ala governista del Movimento è che non sia solo Petrocelli a volere il Movimento 5 stelle fuori dal governo.

I “quattro Petrocelli” pentastellati della Camera

In ogni caso, già alla Camera, nel primo voto sull’invio delle armi in Ucraina, tra i 5 Stelle già in quattro hanno votato in dissenso rispetto alla linea dettata – ambigua – da Conte. Due hanno votato contro: Enrica Segneri, la deputata anti-armi che ha ricevuto i complimenti “per il coraggio” dall’ex ministro Riccardo Fraccaro, e Gabriele Lorenzoni, che dopo avere dichiarato di voler sentire anche la campana dei russi sul bombardamento dell’ospedale di Mariupol, ieri ha respinto l’etichetta di membro della fazione dei putiniani, dicendo no al pensiero unico. Altri due parlamentari si sono astenuti, con un dissenso solo poco più soft: Nicola Grimaldi e Davide Serritella. Per Leu, si è astenuto Stefano Fassina, il renziano Gianfranco Librandi ed Erasmo Palazzotto, che è appena passato da Liberi e Uguali al Pd mentre Laura Boldrini ha fatto sapere via Twitter il suo “no all’invio di armi”.

Nel gruppo pentastellato già li chiamano “i quattro petrocelli”, i dissenzienti, ma la Segneri è convinta che nel Movimento siano in parecchi a non voler spedire armi italiane all’Ucraina. «Non siamo solo quattro, siamo almeno venti», calcola, «solo che qui fanno di tutto per silenziarci. Molti non hanno il coraggio di esporsi, ma in privato mi dicono: brava. Io per prima su altri temi mi sono astenuta, stavolta no. Mi sono beccata una strigliata del capogruppo, Davide Crippa, per ora. Non credo sia finita qui». Tira aria di espulsione? «Lo metto in conto», sospira. Rischiano sanzioni anche gli altri due deputati M5S, Gabriele Lorenzoni e Valentina Corneli. Anche loro piuttosto attivi, mood “equidistante”: il primo ha sostenuto che perfino sull’ospedale bombardato a Mariupol sia fondamentale sentire “l’altra campana”. La seconda si è detta contraria al video-collegamento del presidente Zelensky.

I no compatti di Alternativa e della sinistra

Poi c’è l’intero gruppone degli ex pentastellati che oggi formano, nel gruppo Misto Camera, il sotto-gruppo de l’Alternativa: sono ben in 15, hanno votato tutti contro l’invio delle armi, come pure i cinque deputati del sotto-gruppo ‘Manifesta’ che fanno capo a Prc-Potere al Popolo e i quattro deputati dei verdi, mentre sono almeno sette al Senato quelli pronti a disertare.

In totale, 25 deputati hanno detto no e una quindicina ci si aspetta che dicano no anche al Senato, tra ex M5s, esponenti del Pc di Marco Rizzo (l’ex M5s Emanuele Dessì) e i quattro esponenti di Italexit (Paragone).

Le dichiarazioni strampalate dei putiniani

Una che si fa sempre notare per le sue teorie strampalate è la senatrice Bianca Laura Granato, oggi nel Misto, che ritiene che «Putin stia conducendo una importante battaglia non solo per la Russia ma per tutti noi contro l’agenda globalista che gli Usa e la Ue vogliono imporre». Dentro FI si segnalano, come pacifisti putiniani (e marca visita al discorso di Zelensky) gli ex M5s Veronica Giannone e Matteo Dell’Osso mentre Pino Cabras (L’Alternativa) parla di quello di Zelensky come di un «reality show con noi a fare la parte dei figuranti» e di un’Ucraina che «non è un Paese democratico» mentre sempre Dessì dice che «non ci si può piegare agli Usa e alla Nato». Tra i leghisti renitenti alla leva, nonostante Salvini avesse dato ordine di essere tutti presenti, spiccano il già citato senatore Pillon («vendere le armi non favorisce il dialogo»), il deputato filo-russo Vito Comencini, che voleva volare in Donbass per portare la sua solidarietà alle minoranze filo-russe del Donbass aggredite, a suo dire, dagli ucraini (ha desistito, per sua fortuna), Matteo Micheli, che pure si è distinto, nel voto, Elena Murelli, che parla di «bande paramilitari ucraine che sparano su civili inermi», l’ideologo della flat tax, Armando Siri, che voleva invitare Putin alla scuola di politica della Lega (invito poi non andato a buon fine…) e Claudio Borghi, altra testa d’uovo leghista che voleva «un contraddittorio con Zelensky» dei parlamentari e, non avendolo ottenuto, non c’era, ad ascoltare un discorso che un senatore leghista, coperto da anonimato, ha bollato: «Mi sembrava di sentire parlare il Beppe Grillo ucraino». Quel Grillo che, sul suo blog, non è stato capace di scrivere una parola una di condanna all’invasione.

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