Politica

Election day del 12 giugno. Chi vince e chi perde tra i partiti se…

09
Giugno 2022
Di Ettore Maria Colombo

Un’antica tradizione politica, che risale alla notte dei tempi (cioè alla Prima Repubblica) vuole che le elezioni, anche le più piccole, nel più remoto dei comuni, assumano valore e caratura nazionale. Uno scostamento di pochi punti percentuali, un capoluogo di provincia perso o riconquistato ed ecco che tremano rodati leader di partito, traballano governi dalle larghe maggioranze, vengono rimesse in discussione antiche coalizioni che, nonostante tutto, reggevano da molti anni.

Le differenze con le comunali del 2021

Ovviamente, vale anche il contrario. Nessuno (leader, partito, coalizione) impara mai dai propri errori. Prendiamo le elezioni amministrative 2021 che furono un vero test politico di livello nazionale. Votavano 1.192 comuni, di cui 20 capoluoghi di provincia, tra cui città fondamentali e grandi come cocomeri (Torino, Milano, Venezia, Bologna, Roma, Napoli, etc.), oltre che trainanti nelle loro rispettive regioni, per un corpo elettorale che interessava oltre 20 milioni di abitanti. Fu un terremoto. Vittoria a valanga del centrosinistra, vessilli del M5s nelle poche grandi città che amministravano (Torino e Roma) ammainati per sempre, disastrosa scelta dei candidati nel centrodestra e altrettanto relative sconfitte, anche se – almeno sulla carta – con candidati migliori avrebbe potuto vincere di netto (vedi soprattutto a Torino, Roma e Napoli). Insegnamenti utili per partiti e coalizioni? Macché. Tutto è rimasto come prima. Per non dire dell’altissimo astensionismo, fenomeno ormai dilagante in tutte le consultazioni elettorali (54,6% al primo turno di affluenza: -7% sulle comunali di 5 anni prima, -18% sulle politiche). Ora, però, ci si riprova. Chissà che, stavolta, non si voglia trarre il giusto insegnamento per il futuro dalla lezione che arriverà dal voto. Si vota per eleggere i sindaci e rinnovare le amministrazioni di 978 Comuni, il test riguarda circa 9 milioni di città e sono 26 i capoluoghi di provincia al voto, di cui quattro sono anche di regione: Genova, L’Aquila, Catanzaro, Palermo e 142 i Comuni al voto con più di 15 mila abitanti. I capoluoghi di provincia chiamati al voto il 12 giugno sono Alessandria, Asti, Barletta, Belluno, Como, Cuneo, Frosinone, Gorizia, La Spezia, Lodi, Lucca, Messina, Monza, Oristano, Padova, Parma, Piacenza, Pistoia, Rieti, Taranto, Verona, Viterbo. Se nelle città con oltre 15 mila abitanti nessuno dei candidati raggiunge il 50% più uno dei voti si va al ballottaggio previsto il 26 giugno.

Il valore politico del test amministrativo

Stavolta, dunque, non si tratta di un test chiave, come l’ultimo di ottobre 2021 con le elezioni nelle grandi città, ma le ripercussioni politiche potrebbero essere anche stavolta importanti. In particolar modo per la leadership di Giuseppe Conte, specie nei pochi casi in cui il Movimento si presenterà da solo.

La debolezza della presenza del Movimento

Il M5s non presenta liste elle elezioni in 18 dei 26 capoluoghi al voto. Nei 15 in cui corre con il Pd appoggia candidati dem o civici. A Rieti corre con la lista ‘ConTe’ e solo a Carrara presenta sia simbolo che lista che candidato sindaco del M5s. In nessuna città capoluogo c’è un candidato del M5s che corre per il centrosinistra, ma va sempre in appoggio ai candidati del Pd. Conte però è andato in tour dappertutto, riscuotendo anche una forte presenza di pubblico e di favori (piazze piene, dunque, ma saranno anche urne vuote?).

In generale, comunque, su tutti i 978 comuni al voto, l’M5s presenta sue liste solo in 64 città. È evidente che un Movimento ridotto ai minimi termini (5% o poco più) sarebbe una sconfitta totale per Conte, che potrebbe anche far fare colpi di testa al leader, dallo sfilarsi dalla maggioranza di governo al voler creare un movimento autonomo e personale, sotto la sigla ConTe abbandonando la bad company del M5s a se stessa e rompendo, con il governo, l’alleanza con il Pd, cercando una via di affermazione isolata. Una discreta affermazione (intorno al 10%) delle liste pentastellate e la vittoria dei candidati di centrosinistra alle elezioni aiuterebbero invece i 5Stelle a rimanere attaccati al campo del centrosinistra e del Pd, perseguendo la strada delle primarie, come già è stato deciso in Sicilia e presto nel Lazio, e di un’alleanza organica in vista delle Politiche.

Quanti comuni al Pd per cantare vittoria?

Il segretario del Pd, Enrico Letta, ha già fissato l’asticella: «Nel 2017 rispetto ai 26 comuni in cui si voterà domenica – ha spiegato ai suoi – ne perdemmo 20. Vorrei vincere in più di sei e se sono di più meglio perché comunque vuol dire che il campo largo è meglio dell’isolamento».

Al di là della stoccata alla vecchia linea del Pd isolazionista e privo di alleati di Renzi, è ovvio che il Pd è pronto a esultare se strapperà almeno uno dei quattro capoluoghi di regioni al voto (difficile, se non impossibile, vincere a Genova e a Palermo, più facile e probabile farlo a l’Aquila, tutta aperta e in bilico la battaglia di Catanzaro) e se, dai cinque capoluoghi di cinque anni fa, ne conquisterà almeno più di dieci mantenendo in più la percentuale del Pd stabile intorno al 20%. Ovviamente, un crollo del voto di lista del M5s rappresenterebbe, per Letta, un bel problema, come pure la debolezza delle liste alla sinistra del Pd. Invece, se Azione e Iv – che per lo più hanno scelto candidati vicini o in orbita del centrodestra – vanno male come lista o candidati, Letta non se ne dispiacerà di certo.

Le divisioni nel centrodestra e il loro peso

Per quanto riguarda le divisioni dentro il centrodestra bisogna scendere nelle singole città perché molto spesso le divisioni sono state frutto di rancori e dissapori localistici. A livello generale si può dire che una FdI sopra il 20%, come risultato di lista, e una Lega sotto il 15% sarebbe un trionfo per la Meloni e un tonfo per Salvini al punto da aprire un processo interno contro il leader. Invece, se la Lega resistesse e FdI non sfondasse alle elezioni, in termini percentuali, Salvini potrebbe tirare un sospiro di sollievo e la Meloni rinviare la lotta per la leadership della coalizione. Infine, il dato di FI anche sarà molto interessante. Una FI stabile, o in crescita, intorno all’8% vorrà dire che lo spazio per i moderati nel centrodestra ancora c’è e si può ampliare con altre liste minori (Toti-Quagliariello, Lupi, Udc, etc.), sotto di molto invece la pulsione di fusione/federazione con la Lega per salvare il salvabile prenderebbe il sopravvento e sbilancerebbe tutta la coalizione perché verrebbe meno l’unico partito moderato, popolare, liberal e riformista e resterebbero in campo solo i due maggiori entrambi sovranisti, con un centrodestra tutto schiacciato a destra.

Le città che hanno segnato la divisione a destra

Certo è che mai il centrodestra si è presentato alle elezioni in modo così diviso, frastagliato e privo di ragione.
A Parma, Catanzaro, Viterbo FdI corre da sola. A Verona FdI e Lega sono uniti (con Sboarina), FI va da sola con l’ex sindaco leghista Flavio Tosi. Il centrodestra va diviso a Messina, Verona, Parma, Catanzaro, Viterbo. A Palermo si sono ricompattati su Lagalla (che all’inizio aveva il no della Lega) solo dopo mille polemiche e scontri. A Catanzaro FdI va da sola con Ferro contro Fiorita (progressisti) e Valerio Donato (ex dem, ora civico che raggruppa destra e centristi, e pure Iv). Solo a Genova il centrodestra è unito con Bucci contro Dello Strologo (centrosinistra) con Renzi e Calenda che hanno scelto per… Bucci.

Il centrodestra rischia di più del centrosinistra

Delicate le partite lombarde di Como, Lodi e Sesto San Giovanni e di Alessandria (Piemonte): FdI punta al sorpasso sulla Lega come partito. Certo è che, a queste elezioni, il centrodestra rischia di più del centrosinistra sia in termini numerici (tenere 18 capoluoghi di provincia su 26 non sarà impresa facile, anzi è quasi impossibile), sia in termini di blasone delle città in gioco (mantenere Genova, L’Aquila e Catanzaro, riconquistare Palermo, sarebbe il risultato perfetto del centrodestra), sia della credibilità di una coalizione sempre più spaccata, litigiosa, faticosa.

Le posizioni dei partiti sui referendum sulla giustizia

Va anche detto che il 12 giugno sarà giorno di election day perché si vota anche per i cinque referendum sulla giustizia promossi dalla Lega e dai Radicali italiani. I quesiti sono cinque (riforma del Csm, equa valutazione dei magistrati, separazione delle carriere dei magistrati sulla base della distinzione delle funzioni tra giudicanti e requirenti, limiti agli abusi della custodia cautelare, legge Severino).

Va ricordato che dal 15 giugno, il Senato esaminerà in seconda lettura la riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario presentata dalla Guardasigilli Marta Cartabia e oggetto di una lunga trattativa. I due percorsi paralleli (referendum e riforma) si incrociano. Gli italiani sono chiamati ad esprimersi sulla legge Severino, le misure cautelari, la separazione delle carriere e le valutazioni dei magistrati, e le candidature per il Csm, ma questi ultimi tre quesiti si sovrappongono al pacchetto Cartabia. Non per questo la consultazione è priva di significato. E il risultato cui si guarda è soprattutto l’affluenza: il referendum abrogativo per essere valido richiede la partecipazione della metà più uno dei votanti (su 52 milioni di elettori, vuol dire portare al voto almeno 21 milioni di cittadini, una cifra siderale).

In ogni caso, le posizioni dei partiti per le elezioni sono queste:

Lega: il Carroccio è uno dei due partiti che ha promosso il referendum, ma la campagna elettorale vista fino ad ora in favore del Sì appare fin molto “timida”. In ogni caso, è per cinque sì.

Forza Italia: Sì a tutti e cinque i quesiti che secondo Silvio Berlusconi sono “fondamentali” per riformare l’ordinamento giudiziario.

Fratelli d’Italia: Sì solo ai tre quesiti che riguardano l’ordinamento interno, No a quelli sulla legge Severino e ai limiti alla custodia cautelare.

Italia Viva: Sì a tutti e cinque i quesiti.

Azione: Sì a tutti e cinque i quesiti.

M5S: No a tutti e cinque i quesiti.

Partito Democratico: libertà di coscienza al voto. Enrico Letta ha fatto sapere che voterà No a tutti i quesiti perché «aprirebbero più problemi di quelli che si vogliono risolvere», ma il Pd ha scelto di lasciare libertà di coscienza ai suoi iscritti: sempre Letta ha dichiarato di essere per il no, ma ha aggiunto che «il partito non è una caserma». Infatti, alcuni parlamentari, come il costituzionalista Stefano Ceccanti, hanno dichiarato che voteranno sì, così come alcuni sindaci come Giorgio Gori di Bergamo, che ha scritto: “Io ribadisco i miei tre sì: separazione delle carriere, custodia cautelare e legge Severino per affermare il valore della presunzione di innocenza e dei diritti della difesa”.

Articoli Correlati