Politica

Caso Pifferi, Matone: «Velocizzare le adozioni per salvare minori in difficoltà»

16
Maggio 2023
Di Gaia De Scalzi

Ci sono storie di cronaca che non riusciamo o non vogliamo comprendere. Storie alle quali vorremmo dare una spiegazione, non per giustificarle ma per sentirci più sollevati o meno in colpa, sebbene a compierle non siamo stati direttamente noi. La storia di Diana, abbandonata dalla madre (Alessia Pifferi) a luglio scorso nella sua abitazione a soli 18 mesi è una di queste. Com’è possibile lasciare sola una bambina così piccola per 6 giorni senza provare rimorsi? E com’è possibile che la Corte di Assise di Milano abbia rigettato la perizia psichiatrica sulla donna? «La perizia psichiatrica non è un regalo. Si dà quando ci sono degli spunti sui quali ragionare per un’eventuale capacità di intendere e di volere, non spetta quindi a tutti». A parlare è Simonetta Matone, per 17 anni pubblico ministero per i minorenni e per sette sostituto procuratore generale presso la Corte d’Appello di Roma e ora, dismessa la toga, componente delle commissioni Giustizia e Affari sociali alla Camera dei deputati in quota Lega, esperta di adozioni e politiche per la famiglia.

«Non formulo giudizi tecnici senza aver letto tutte le carte. Bisognerebbe capire com’è stata articolata la domanda della difesa prima di poter esprimere un parere. Ma posso dirle che tutto ciò che riteniamo inaccettabile fa scattare nell’essere umano una sorta di autodifesa preventiva. Difficile accettare il fatto che un gesto del genere sia stato compiuto da una persona sana di mente. Io stessa – confessa – ho letto pochissimo di questa storia, in virtù del turbamento che mi ha provocato».

Eppure lei di casi così ne avrà visti tanti durante la sua carriera…
«Ne ho seguiti tanti. Sia sotto il profilo penalistico, come processi per maltrattamenti quando stavo in Corte d’appello nel team criminalità organizzata, sia sotto il profilo civilistico a difesa del minore come pubblico ministero per i minorenni».

Ci può fare qualche esempio?
«Guardi, potrei andare avanti per ore. Gliene cito un paio. Ci fu un caso di due sorelline, rispettivamente di 18 e 6 mesi, chiuse in casa dalla nonna che se ne andò fuori Roma. Salve unicamente perché, dopo un paio di giorni, i vicini allertarono le forze dell’ordine. Un’altra volta cinque bambini rom, con entrambi i genitori in carcere, che vennero accuditi per una settimana da una ragazza di 12 anni, senza cibo né elettricità. Tutti casi che per fortuna si sono interrotti grazie all’intervento di qualcuno. Non sono eventi così rari, mi creda».

Purtroppo nel caso di Diana nessuno dei vicini ha allertato la polizia, sebbene – da quello che si legge – Alessia Pifferi non fosse insolita lasciare la figlia sola in casa per 2 o 3 giorni…
«C’è un’eccessiva tendenza alla privacy che a mio parere è sbagliatissima. È molto meglio un intervento in più, magari infondato, che uno in meno con il rischio di arrivare a finali tragici come in questo caso. La rete di protezione sociale funziona nel momento in cui tutti quanti ci rendiamo consapevoli della necessità e dell’importanza di coadiuvare le istituzioni».

Non è facile però strappare un figlio a una madre. Ci vuole coraggio…
«Guardi, se qualcuno avesse avvisato prima le autorità, probabilmente Diana sarebbe ancora viva. Ad ogni modo vorrei sfatare un mito: non è vero che i tribunali portano via i bambini ai genitori. C’è un rispetto del vincolo di sangue che lei non immagina nemmeno, quasi eccessivo in alcuni casi».

Un vincolo che alle volte riguarda le vittime. Una sorta di Sindrome di Stoccolma…
«Più che Sindrome di Stoccolma sono i legami di sangue, come dicevo poco fa, che costituiscono un richiamo inesorabile. Ho seguito persone che sono state violentate dai padri e che sono tornate a vivere con loro. La fame di affetto che provano questi bambini è enorme. Parliamo di ragazzi che sono stati privati di tutto e l’unica cosa alla quale si aggrappano sono proprio i loro sequestratori. Bisogna fare i conti con le individualità di ciascuno, non è possibile generalizzare. Quando lo si fa spesso si sbaglia, come nel caso di Serena Cruz».

Non lo ricordo, me lo racconta?
«Parliamo di 35 anni fa. Serena era una bambina filippina abbandonata in orfanotrofio a Manila. Venne adottata non proprio legalmente da una coppia di coniugi italiani, i Giubergia. L’Italia si divise in due, letteralmente. All’epoca ero Capo Segreteria di Vassalli (Ministro di Grazia e giustizia durante la X legislatura ndr) e ricevemmo 1.500 telegrammi da tutto lo Stivale, per scongiurare che la bimba venisse allontanata dalla sua famiglia adottiva».

Quale fu l’epilogo?
«Quello fu un caso emblematico, di come la giustizia possa essere lontana dai sentimenti, perché si decise di applicare la legge a prescindere dal legame affettivo del minore. Peccato che a me è stato insegnato che la giustizia è la giustizia del caso singolo, non di quello esemplare. I Giubergia avevano frodato lo Stato e adesso dovevano pagare. Raggiunta la maggiore età Serena si ricongiunse con loro. Su questa storia i giudici minorili dovrebbero riflettere ma, purtroppo, questo caso se lo sono dimenticato tutti».

C’erano gli estremi per lasciare Serena ai Giubergia?
«Eccome! C’erano le norme che consentivano – in virtù del superiore interesse del minore – di non strapparla alla famiglia che aveva deciso di toglierla da un orfanotrofio di Manila».

Onorevole, a proposito di adozioni in Italia, secondo lei c’è qualche intervento a livello normativo che la sua esperienza le suggerisce di avanzare?
«Sicuramente andrebbero velocizzate le pratiche per le adozioni. Ma soprattutto rafforzati i servizi sociali per far sì che le varie istruttorie per arrivare all’idoneità siano più semplici. Pensiamo a tutti quei bambini dichiarati in stato di abbandono, allontanati dalle famiglie di origine e in attesa di essere assegnati ad altre famiglie in grado di prendersene cura. I bambini abbandonati alla nascita sono una rarità e mediamente dopo due o tre mesi nelle case-famiglia vengono affidati, diversamente da quelli più grandicelli che seguono un iter giudiziario complesso».

Di quanto tempo parliamo?
«Impossibile fare una stima. Ci sono bambini che hanno atteso una decina d’anni prima di essere dichiarati adottabili. Lei deve immaginare una situazione in cui un ragazzo viene affidato a una casa-famiglia, poi riassegnato alla sua famiglia d’origine, e nuovamente riconsegnato alla casa-famiglia. E via così fino a quando non si completa l’iter adottivo. Nel momento in cui lo stato di abbandono diventa definitivo e non più ricorribile, solo in quel momento, il bambino diventa adottabile».

Questa la situazione delle adozioni nazionali. Va meglio con quelle internazionali?
«No, anche in questo caso ci vogliono almeno tre anni. Senza considerare che i corridoi internazionali sono regolati da accordi molto complessi, in continua evoluzione. C’è una difficoltà frapposta dal paese di origine del bambino potenzialmente adottabile. Non è colpa dell’Italia. Guardando ai risultati, ad esempio, un ottimo lavoro viene svolto dai paesi del Medio Oriente, dove le adozioni sono state istituzionalizzate non per maltrattamenti bensì per povertà, con una riuscita sul piano sociale eccellente. Questi bambini si integrano perfettamente nel nostro tessuto sociale e raggiungono traguardi strepitosi. Tuttavia, troppo spesso, vengono chiuse le frontiere per i motivi più disparati e gli iter adottivi si bloccano improvvisamente. Senza considerare che le adozioni internazionali sono economicamente molto onerose. Non tutti se le possono permettere».