Politica

Biden-Harris, una vittoria per guarire l’anima degli Stati Uniti

08
Novembre 2020
Di Andrea Maccagno

Promessa mantenuta: Joe Biden è il 46esimo presidente degli Stati Uniti d’America. Il patto con il figlio Beau (malato di tumore e poi prematuramente deceduto) di guidare l’America si è finalmente concretizzato nella giornata di sabato 7 novembre, dopo quattro giorni di estenuante attesa. Con lui, alla Casa Bianca andrà Kamala Harris, prima donna ad essere eletta vicepresidente. Una giornata storica, per un’elezione storica che, partendo proprio dalla coppia Biden-Harris, ribalta la concezione di potere, democrazia e visione del mondo dell’America di Trump.

Una figura, quella di Biden, dapprima sottovalutata: a inizio primarie più di qualcuno lo aveva considerato finito visto le prime sconfitte. Poi, dopo un Super Tuesday da cappotto, l’unico capace di far convergere su di sé l’intero mondo Dem: fatto questo non riuscito a Hillary Clinton che, pur raccogliendo il maggior numero di consensi, perse le elezioni del 2016.

Troppo vecchio, troppo lento, troppo “sleepy”: così veniva considerato Joe dai suoi critici e molti ritenevano la sua candidatura deficitaria contro un Tump che, invece, non ha mai perso occasione per mostrare il suo alphismo.

I sondaggi, però, raccontavano un’altra storia: oltre 8 punti di distacco a livello nazionale e vittoria con circa 300 grandi elettori, seppur con qualche chance per Trump dovuta a una più fortunata distribuzione del voto. Beh, questa volta i sondaggi non sono andati lontani dalla realtà.

Quella di Biden è stata una vittoria sofferta, arrivata dopo giorni di spoglio a rilento, causato da una storica affluenza e da qualche difficoltà nel processo di conteggio che, in epoca Covid, ha visto un massiccio ricorso al voto per posta, incoraggiato proprio dalla campagna democratica.

Ma è stata anche, nei fatti, una vittoria netta e schiacciante: 75 milioni di voti – un record per un presidente eletto – probabilmente 306 grandi elettori finali e numerosi Stati strappati a Trump rispetto al 2016. A partire da Wisconsin, Michigan e Pennsylvania, che fecero la differenza quattro anni fa. Ma anche da Arizona e Georgia, stati considerati storicamente repubblicani. Erano inoltre 28 anni che uno sfidante non perdeva contro l’incumbent.

I dubbi sul suo profilo come sfidante di Trump, quindi, non hanno senso di esistere: gli americani hanno scelto in massa lui e Harris. Se l’intero spoglio fosse terminato la sera stessa del 3 novembre, probabilmente avremmo oggi un’altra impressione della vittoria di Biden. Con buona pace di Trump, le cui minacce di ricorsi non sembrano poter mettere in crisi il risultato finale, che ha consegnato a Joe una vittoria senza appello.

Cosa farà The Donald nelle prossime ore? Difficile accetti il responso delle urne e crei le condizioni per una successione serena con il futuro inquilino della Casa Bianca. Ma, per quanto possa tentare qualsiasi strada per ostacolare la vittoria di Biden, sul lungo periodo può fare solo una cosa: rassegnarsi. Bisogna capire quanto tempo gli ci vorrà.

Per Biden e Harris, invece, inizia ora la sfida più decisiva: ricomporre una nazione divisa. Questo l’ha capito bene Joe, che in un tweet a spoglio in corso aveva dichiarato: “Basta trattare gli oppositori come nemici, governerò come presidente di tutti gli americani”. Anche il suo discorso della vittoria si è concentrato molto – se non tutto – su questo aspetto. Non solo, gli americani a Biden chiedono diritti e apertura al mondo, in netta controtendenza con la precedente amministrazione. E il ticket presidenziale ha già fatto sapere di voler iniziare rientrando negli accordi per il clima e nell’OMS.

Ma forse il discorso migliore l’ha fatto Kamala: spontanea e determinata, ha ricordato la battaglia per l’uguaglianza delle donne e delle minoranze. Quando si dice “storico”, ci si riferisce soprattutto a questo. Guarire l’anima degli Stati Uniti, “Restore the soul of this nation”: da oggi non più uno slogan, ma un programma da realizzare.

Photo Credits: Biv.com

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