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Referendum per rendere la sinistra strutturalmente minoritaria?
Di Daniele Capezzone
Non è nostro compito dare consigli alla sinistra italiana, che sa benissimo sbagliare da sola, e senza bisogno di apporti o consulenze esterne.
E tuttavia, se dovessimo dare un suggerimento sincero e disinteressato allo schieramento progressista, consiglieremmo di non concentrarsi sulle dichiarazioni relative ai referendum del Presidente del Senato, ma proprio sull’oggetto delle cinque richieste referendarie e sul probabilissimo esito catastrofico della consultazione dell’8-9 giugno.
Se le cose andranno come si immagina, la partecipazione si attesterà sopra il 30%, ma difficilmente alle soglie del 40%: un chiaro naufragio politico, una certificazione della condizione minoritaria di questa sinistra nel paese.
Ma non finisce qui, perché in politica può fisiologicamente capitare di essere minoritari, eppure portatori di istanze di cambiamento, di semi destinati a produrre fiori e frutti più avanti. E invece no: qui il risultato sarebbe drammaticamente minoritario, e per di più inchioderebbe la sinistra a una linea estrema sulla cittadinanza (un po’ come andare contromano autostrada) e a una linea di irrigidimento anti-impresa (e in ultima analisi anche anti-lavoratori) del mercato del lavoro.
Il risultato politico sarà cioè di desertificare a sinistra tutto ciò che sia distante o anche semplicemente diverso dal binomio Landini-Schlein.
E i cosiddetti “riformisti” del Pd? Ridotti a “panda” da destinare ad apposite riserve (5 seggi alla Camera e 5 al Senato la prossima volta, più o meno quello che il Pci assegnava agli “indipendenti di sinistra”). Al massimo (ma questo resta da vedere) una funzione riformista potrebbe essere legittimamente riconosciuta a Matteo Renzi, dentro la coalizione ma fuori dal Pd, a significare un’avvenuta mutazione genetica del partito del 2013-2014.
E loro – i riformisti del Pd – nemmeno combattono, nemmeno difendono a testa alta le loro leggi ora sottoposte alla mannaia referendaria di Elly & Maurizio. Sussurrano (ma siamo allo ius murmurandi riconosciuto ai dissidenti, nulla di più) la loro “libertà di coscienza”. Ma hanno già interiorizzato una sconfitta culturale non transitoria.
Elettoralmente, non a caso, la somma di Pd e Cinquestelle, da quasi due anni non supera quota 34-36%: possono esserci travasi interni, nella logica dei vasi comunicanti, ma nessun significativo allargamento ad altre aree di consenso. Sommando i piccoli si può arrivare a un 40-42% complessivo. Lontano dal centrodestra e senza serie chances di competere per la vittoria. Ne vale la pena? Contenti loro…
