Chiunque abbia cuore e testa al posto giusto non può certamente vivere con leggerezza questo tempo. Nessuno sa cosa accadrà nei prossimi giorni, meno che mai nelle prossime settimane e mesi.
L’attacco americano deciso da Donald Trump contro gli impianti nucleari iraniani è un evento enorme. Può auspicabilmente segnare la fine del regime teocratico di Khamenei, e certamente lo disarma dello strumento di offesa più pericoloso che stava preparando. Ma può anche dar vita ad ulteriore instabilità nell’area. Gli ayatollah in ginocchio potrebbero tentare azioni disperate nella regione.
Chi scrive ritiene da tempo che, nella bilancia dei rischi, agire fosse preferibile a continuare a temporeggiare. Di più: penso che la lunga doppia stagione (Obama e poi Biden, con la parentesi del Trump uno) in cui gli Usa scommisero sulla possibilità di trattare con gli ayatollah sia stata una pericolosa perdita di tempo. Meglio provare (esercizio difficile e incerto, lo riconosco) ad aprire una pagina nuova in Medio Oriente, puntando per un verso su Gerusalemme e per altro verso su Riad.
Comunque la si pensi, resta però un’evidenza. Il 7 ottobre fu presentato da molti come un nuovo 11 settembre. Paragone forse errato: quella sciagurata scelta di Hamas e dei padrini iraniani va semmai accostata a Pearl Harbor, l’attacco che rese inevitabile l’entrata in guerra degli Stati Uniti.
Molti decenni dopo, il pogrom del 7 ottobre doveva far immaginare che la risposta prima di Gerusalemme e poi di Washington non sarebbe mancata. E infatti, giustamente, è andata così.
