Lavoro
Reputazione: il capitale più citato, più fragile e meno compreso dell’era digitale
Di Domenico Giordano
È già da qualche tempo che non passa giorno in cui non mi capita di beccare online un articolo o di non ritrovarmi nel feed di LinkedIn un post in cui a vario titolo non si discuta di reputazione. Sarà pure una mia distorsione cognitiva, però, mi sembra che il tema stia diventando un’etichetta generalista da appicciare su tutto, così giusto per fare bella figura. Tant’è che ha ragione da vendere Massimo Micucci quando scrive che ormai “la reputazione è tutto” e proprio per questo è, al tempo stesso, anche il suo contrario. È una parola “tanto usata quanto abusata, indispensabile, ma spesso inafferrabile”.
Del resto, come non accettare il fatto che è proprio questa sua intrinseca caratteristica a renderla largamente manipolabile e fragile, che la costringe a patire le molteplici distorsioni di senso. Così, a volte se ne parla con cognizione di causa, altre volte, il concetto viene utilizzato in modo assolutamente elastico, quasi come se fosse un orpello da infilare in ogni sorta di ragionamento, per darsi un tono e delle arie: solo che più se ne parla, più ne scriviamo, tanto più il suo valore concettuale rischia di perdere importanza e consistenza.
Eppure, da quando la società digitale si è sbracata senza alcun decoro e con essa la dimensione della comunicazione permanente, onnipresente e assorbente ha preso pieno possesso delle nostre vite, la reputazione è diventata a maggiore ragione il principale, e ripeto a scanso di equivoci il principale, capitale immateriale che le aziende, le istituzioni e quel variegato mondo delle social celebrity devono coltivare e difendere. Oggi più che mai, la gestione della reputazione non può esser lasciata al caso, all’improvvisazione e a un approccio contingente o tattico. La reputazione è l’unica moneta che ha corso legale nell’economia digitale, così come nei processi di costruzione autentica dell’opinione pubblica online. Inoltre, più il contesto è segnato da una condizione di permacrisi, tanto più aziende e istituzioni non possono sottovalutarne gli effetti.
La reputazione richiede una visione strategica e una dedizione costante. Intanto, partiamo da una premessa che non sempre è scontata: la reputazione non è un asset immateriale di recente conio, anzi ha sempre accompagnato l’intrapresa umana, soltanto che rispetto a quanto accadeva nelle società industriale e post-industriale, per restare dentro una categorizzazione sociologica largamente condivisa, dove la consistenza del capitale reputazionale era granitica, quasi inscalfibile. Una volta acquisita, era quasi impossibile che potesse essere dilapidata facilmente. La reputazione superava indenni tempeste, guerre e crisi profonde. Invece, la sfida contemporanea, portato fisiologico dalla società delle piattaforme, è quella della fragilità e della volatilità estreme.
Basta un nulla, come un battito di farfalla, secondo la teoria di Edward Lorenz, così come post anonimo, un micro evento, una modifica impercettibile e innocente che nessuno riesce a vedere o intercettare per innescare uno shock reputazionale irreversibile, che trascina nel baratro anni e decenni di lavoro. A questa nuova dimensione della friabilità, c’è da aggiungerne una seconda condizione, anch’essa come la prima congenita all’era digitale e con la quale tutti noi dobbiamo fare i conti: quella della costruzione sincronica della reputazione. Infatti, se prima il processo di posizionamento reputazionale nei diversi mercati di riferimento richiedeva tempi lunghi, investimenti sostanziosi e organizzazioni complesse, che in pochi potevano permettersi, attualmente chiunque di noi, anche partendo con risorse limitate può costruire in una dote reputazionale di grande valore, di impatto globale e capace di offuscare brand e capitali reputazionali storici. Il valore della reputazione non è più soltanto diacronico, ma sempre più spesso ha uno sviluppo sincronico.
Attenzione, però, per ritornare a Micucci e chiudere il cerchio del ragionamento, guai a pensare che la “reputazione sia solo visibilità” o soltanto “gestione della crisi” che ci ha travolti, ma questa “nasce dalla coerenza tra ciò che un’organizzazione fa, dice e rappresenta” e la coerenza la si può fecondare anche con un reel virale, ma ha bisogno di tempo e tempi per resistere alla bulimia dell’algoritmo.





