Lavoro
La fuga dei giovani dall’Italia e il blocco dell’ascensore sociale
Di Marcello Presicci*
*Docente e Presidente Board Fondazione Educazione Finanziaria
Come è tristemente noto la popolazione italiana sta diminuendo. Certo, ciò è attribuibile ai bassi livelli di natalità, ma la popolazione diminuisce anche perché quel che non si arresta è il numero di ragazzi e ragazze che lasciano il nostro Paese, la famigerata “fuga di cervelli”. Oltre un milione di italiane e italiani nel decennio dal 2014 al 2024 si sono trasferiti all’estero, di questi quasi 150 mila possedevano una laurea al momento della partenza. E se ad andarsene sono stati in oltre un milione, a rientrare, sempre negli stessi 10 anni, sono state solo 110mila persone. Secondo le ultime stime ISTAT l’età media della popolazione italiana è di 46,8 anni; questo dato indica come l’Italia abbia una delle popolazioni più anziane al mondo, con un processo di invecchiamento in continuo aumento (siamo secondi solo al Giappone) e con una bassa presenza di giovani nella società. Quest’ultimi continuano dunque a cercar fortuna all’estero ma allo stesso tempo il nostro Paese non attrae coetanei, né investitori, né giovani imprenditori. Alla base di questi indici negativi vi sono due macro cause: la prima, le economie più dinamiche e i settori in crescita in altri Paesi europei ed extraeuropei risultano molto più attraenti rispetto alle prospettive offerte dal mercato del lavoro italiano. La seconda: il 65% degli under 35 afferma di emigrare per difficoltà a trovare un’occupazione soddisfacente e per la prospettiva di una carriera lavorativa internazionale più stimolante rispetto a quella nostrana.
Il governo italiano sta da tempo lavorando su misure per incentivare il rientro dei talenti emigrati e per trattenere quelli ancora presenti. Tentativi lodevoli che purtroppo non hanno – per ora – generato un reale impatto atto a contrastare questa contingenza negativa. Ma quali sono i motivi profondi di questa fuga? Le annose fratture sociali, la scarsa propensione delle aziende ad assumere professionisti qualificati, i bassi salari, le esigue possibilità di crescita, la percezione di una mancanza di meritocrazia e – al contrario – della presenza di una burocrazia inefficiente, sembrano essere le cause predominanti.
Vi è poi il tema del blocco dell’ascensore sociale: basti pensare come solo 3 italiani su 10 sono convinti che i propri figli possano aspirare ad una posizione sociale migliore della loro. Molti studiosi affermano come si sia completamente arrestato questo meccanismo, l’ascensore sociale, che per decenni ha consentito a tanti giovani di passare, grazie alla Scuola, da una posizione di scarsa rilevanza sociale a uno stato di estremo miglioramento, consentendo anche l’integrazione tra i diversi strati che strutturano la società. È questo quello che accade oggi, quasi sempre in Italia, dove un giovane difficilmente riesce da zero ad arrivare a ricoprire figure apicali nel proprio ambito lavorativo in breve tempo. I dati statistici rivelano che non solo l’ascensore sociale non funziona più da tempo, ma che il divario tra le classi sociali diventa più ampio, al punto tale che sarà sempre più difficile risanarlo. E’ necessario dunque interrogarsi sulle cause che danno origine alla disuguaglianza di opportunità e riflettere sulle politiche più appropriate per favorire la realizzazione dei singoli e una crescita più inclusiva.
L’intelligenza – come il talento – è una dote innata ma ha bisogno di essere rafforzata e nutrita anche, soprattutto, grazie all’istruzione e all’educazione. Qui troviamo un fattore, forse il più importante, che blocca il movimento dell’ascensore sociale. La crisi della Scuola e del nostro sistema di istruzione. Unaltro dato, che avvalora questi tesi, proviene dal Global Social Mobility Report del World Economic Forum. La ricerca ha svelato come l’Italia sia il Paese europeo con l’indice di mobilità sociale più basso del continente sottolineando quello che già sappiamo: l’accesso alle possibilità è proporzionalmente legato alla situazione economica e si tramanda da genitori in figli senza possibilità di crescita. Infine, le nostre università preparano generazioni di giovani che poi tristemente lasciano l’Italia per realizzarsi altrove, per questo l’esodo dei giovani laureati italiani verso l’estero ha un saldo notevolmente negativo. E riguarda anche il Nord i cui dati sono compensati solo dalla massa migratoria di studenti e laureati provenienti dal Sud. Una realtà sconcertante se si considera che il Paese investa nell’istruzione il 4% del proprio PIL. Ma non sono solo le cifre esorbitanti a documentare le perdite in termini umani ed economici, il danno più pesante per il Sud è la perdita di intere generazioni di giovani e i loro mancati frutti nel tempo. Occorre quindi intervenire al più presto per tentare di fermare, o quantomeno rallentare, il declino dell’Italia e dei suoi giovani. Solo così potremo sperare che il celebre titolo, apparso qualche anno fa in prima pagina sul New York Times, (“L’Italia è destinata a scomparire?”) sia errato. Per iniziare basterebbe seguire, ad esempio, il recente consiglio del più importante banchiere italiano (Carlo Messina, Ceo Intesa Sanpaolo): “La povertà e la mancanza di opportunità per i giovani sono temi che toccano tutti noi e richiedono un impegno collettivo, meno spese militari e più investimenti su giovani”. Alla politica e all’Europa l’arduo compito.





