Politica

“Non c’è pace tra i draghetti”. Crisi alle porte? I partiti, sia vincitori che sconfitti alle comunali, si aggirano come api impazzite intorno a Draghi…

06
Ottobre 2021
Di Ettore Maria Colombo

Non si fa manco in tempo ad analizzare il voto che già scoppia la prima grana nel governo.

Non si fa neppure in tempo a commentarli, figuriamoci ad analizzarli, i risultati elettorali, che già scoppia la prima ‘mina’, ma non tra i partiti. Né quelli di centrodestra, assai ammaccati – per usare un eufemismo – dal voto uscito dal primo turno delle elezioni amministrative (Salvini si dimetterà? E la Meloni? Che dice il Cavaliere?). Né quelli di centrosinistra: cosa farà, del suo trionfo, il Pd, diventato il primo partito italiano? Riflessioni sull’abnorme astensionismo, zero?

Neppure sul lato del M5s, tranne il solito ‘bollire’ delle chat interne, e il relativo leccarsi le ferite, arrivano news significative: Conte non si dimette (figurarsi, è stato appena eletto), la Raggi intigna e grida, strepita, contro le ‘corazzate’ altrui che, forse con un ‘complotto’, l’hanno affondata. Autocritica, da parte dei vari big, meno di zero.

Non si fa in tempo neppure a dare una rapida, distratta, occhiata ai ‘flussi elettorali’ che la Lega non vota un decreto del governo (la delega fiscale). La notizia la battono le agenzie, che sono passate da poco le cinque de la tarde.

Titolo: “La Lega non vota la riforma del fisco di Draghi. Salvini: “Non è l’oroscopo, non firmiamo in bianco. Il premier cambi metodo”.

Ogni elezione, in Italia, provoca dei ‘terremoti’ (a differenza che altrove): è così pure stavolta

Ecco, se il buongiorno si vede dal mattino, le elezioni, per quanto siano state ‘comunali’, hanno il loro primo, immediato, contraccolpo politico, come è ‘buona’ tradizione politica che succeda, ma solo in Italia (un premier, Massimo D’Alema, si dimise per aver perso le Regionali, nel 2000, appena per 5 a 6, per non dire di molti altri casi).

Draghi trasecola, non è abituato a queste ‘sceneggiate’.

Del resto, il centrodestra è allo sbando, la Meloni sta messa, se possibile, quasi peggio di Salvini, sia come percentuali che come scandali interni, Forza Italia è ridotta a percentuali imbarazzanti, con o senza Berlusconi, gli altri sono pulviscoli. Non che, nel centrosinistra, stiano messi meglio. La sinistra radicale non esiste più, o quasi. Il centro se lo va sognando forte solo Matteo Renzi, ma per il resto non esiste in natura (non nei partiti di centro, lista Calenda a parte, e non nei sindaci).

I 5Stelle sono entrati nella crisi peggiore della loro breve, ma infelice, storia, la peggiore di tutte: al Nord non esistono, sono praticamente azzerati (Italexit di Paragone ha preso, a Milano, di più), al Centro, se non fosse per la lista Raggi a Roma, comunque fuori dal ballottaggio, sono ai minimi, al Sud resistono, ma neppure lì risultano decisivi. A Napoli il centrosinistra avrebbe vinto lo stesso. In Calabria, con tutti i 5S, il Pd ha perso uguale.

Insomma, un disastro, e una leadership, quella di Conte, che ha riempito le piazze e vuotato le urne secondo l’antica, sempreverde, profezia del leader del Psi Pietro Nenni (“piazze piene, urne vuote”), e che nasce azzoppata, forse già morta, da subito.

Cosa farà ora Draghi? Tempi bui incombono

Ora, come risponderà Draghi, questo – al momento – non è dato sapere. Certo è che il premier, un suo ‘commento’ ai risultati elettorali lo aveva fatto, a modo suo, proprio portando in Cdm la delega fiscale. Un modo per “mandare un avviso alla maggioranza”, Lega in testa a tutti: « Draghi aveva già pronto il testo. Aveva accolto la richiesta di rinviare la riforma a dopo le elezioni, ma ora dice ai partiti: abbiamo degli impegni», spiegava, ieri, un ministro a Francesco Verderami sul Corsera. Morale, fine della ricreazione.

I partiti? Se Atene piange, Sparta non ride… Il centrodestra è a pezzi, il Pd non sa che fare.

Nessuno, in teoria, ha la forza di toccare il governo. Il voto conferma la debolezza delle forze politiche, tutte, e non solo del centrodestra.

Anche sul versante opposto, nel centrosinistra, l’affermazione del Pd come primo partito d’Italia avviene soltanto sulle macerie del grillismo. Il centrosinistra oggi, di fatto non esiste, cioè non arriva al 30% dei voti: «al Nord l’M5S sta scomparendo», come ha evidenziato Prodi, offrendo a Renzi la possibilità di dire che «Iv è davanti ai grillini quasi ovunque». In queste condizioni la dote che Conte porta in dote a Letta è insufficiente per competere con gli avversari. E infatti il leader del Pd deve, giocoforza, parlare di una «coalizione allargata», di ‘nuovo grande Ulivo’, evocando una cosa che sta a metà strada tra l’idea della ‘maggioranza Ursula’ (cioè, in buona sostanza, Pd-M5s-LeU-FI…, copyright però sempre di Romano Prodi) e l’Unione di terribile memoria (sempre by Prodi), cioè un’accozzaglia indistinta di tutto e di tutti.

Peraltro, se il primo disegno, per realizzarsi dovrebbe però passare per una rottura del centrodestra di governo e per il ‘distacco’, a quel punto definitivo di Forza Italia dal centrodestra (i ministri Carfagna, Gelmini e Brunetta ci sperano, e lavorano per questo, Tajani no, il Cav non si sa, o meglio, di questi tempi, non si capisce bene), il secondo ‘disegno’, quello dell’accozzaglia, del caravanserraglio stile Unione (dai centristi di Iv e Azione e +Europa fino a LeU, passando per M5s) non è neanche detto che, al momento del voto, convinca gli italiani, specie i tanti che si sono rifugiati, in queste comunali, nell’astensionismo, ma che, naturaliter, sono ‘de destra’, non ‘de sinistra’, visto che abitano nelle periferie urbane.

Certo è che se Salvini, fino all’altro ieri, giurava che «noi stiamo nell’esecutivo e vi rimarremo. E se qualcuno usasse il voto per abbatterlo, sarebbe irresponsabile», parlando al Pd perché Meloni – che ha ‘sfidato’ Letta così: eleggiamo Draghi al Colle e, dopo, andiamo subito a votare – intendesse, ieri, come si è visto, ha cambiato idea. Eppure, la sua linea ‘descamisada’ lo ha già consegnato alla sconfitta, ma il Capitano intigna con la “bomba” sulla delega fiscale.

Così si torna a Draghi, attorno a cui si stringono, per pura necessità, i partiti della maggioranza.

Eppure, nel Pd, diventato il ‘primo partito’, la ‘tentazione’ (folle) di correre a urne anticipate, per poter gridare ‘ball, set, match’, corre sul filo. Come se, alle politiche, si votasse come nei comuni. Come se le grandi Regioni, tranne cinque, non fossero tutte amministrate da governi di destra (ultima arrivata la Calabria). Come se l’alto astensionismo, che alle Politiche, in gran parte, ‘rientra’, già sapessero dove andrà.

La partita per il Colle porterà anche alle urne?

In tempi ‘normali’, lo scontro tra partiti si ferma. Al massimo, si sposta sulla corsa per il Quirinale. Meloni già sfida Letta, dicendosi disponibile a votare Draghi se poi si andasse subito al voto: il guanto, in realtà, lo ha però lanciato a Salvini. Il centrodestra potrebbe nuovamente dividersi, disperdendo la forza dei numeri di cui dispone con i suoi grandi elettori (se resta unito è a un filo dalla maggioranza assoluta, alla IV votazione) e lasciando, anche stavolta, un Pd che in Parlamento è minoritario fare lui da ‘regista’ e, dunque, ‘scegliere’ il nuovo inquilino del Colle.  Se non fosse che anche il centrosinistra è diviso, perché Conte non controlla i gruppi parlamentari e il Pd annovera troppi candidati. Sul Quirinale potrebbe scoppiare l’ennesima crisi dei partiti. Sempre che non scoppi prima, cioè subito. Dato che, nella nostra pazza Italia, votare in 1200 comuni, e perdere (o vincere) elezioni comunali può anche voler dire aprire una crisi di governo…

Photo Credits: Wired

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