In Parlamento

Legge di bilancio, Garavaglia: «Uscire dalla procedura Ue ci permette di salvare la sanità»

30
Ottobre 2025
Di Ilaria Donatio

(Intervista pubblicata su L’Economista, inserto de Il Riformista)
“La salute è il primo dovere della vita”, scriveva in A Woman of No Importance Oscar Wilde. Più di un secolo dopo, l’OCSE ne ha fatto una traduzione economica e concreta: “Investire in salute è investire in crescita. Ogni euro speso in prevenzione e sanità pubblica genera valore economico e sociale”. Due realtà che, almeno nelle promesse e nelle scelte di bilancio, provano a intrecciarsi nella Manovra 2026, dove la sanità torna al centro del confronto politico: non più solo un costo da contenere, ma una leva di stabilità e sviluppo. Ne parliamo con Massimo Garavaglia, presidente della Commissione Finanze del Senato.

Senatore, la manovra aumenta di oltre due miliardi il Fondo Sanitario Nazionale. È una cifra sufficiente a rispondere ai bisogni del sistema?

«È il massimo che si poteva fare nel contesto macroeconomico. Il Governo ha scelto una linea di rigore per uscire dalla procedura di infrazione, e questo è un obiettivo strategico. Non si tratta solo di rispettare i parametri europei: uscire dalla procedura un anno prima produce vantaggi concreti, come il miglioramento del rating, la riduzione dello spread e un minor costo sul debito. Ma soprattutto – e questo è un dettaglio che molti sottovalutano – consente di destinare, dal prossimo anno, più risorse alla difesa senza dover toccare la sanità e il sociale. È una mossa che mette il Fondo Sanitario al riparo per il futuro, garantendo continuità ai servizi essenziali».

Un messaggio chiaro: la tenuta dei conti pubblici come condizione per la stabilità della sanità. Ma resta il tema dei meccanismi di spesa. Il payback, per esempio, continua a generare tensioni tra Stato, Regioni e imprese. Come se ne esce, sia per la farmaceutica sia per i dispositivi medici?

«A mio avviso il sistema è già superato nei fatti. Il payback era nato molti anni fa come misura di contenimento, ma oggi è diventato tutt’altro: uno strumento surrettizio per coprire i buchi di bilancio delle Regioni. Paradossalmente, finisce per incentivare la spesa. Mi spiego: la norma prevede che se una Regione sfora, metà del disavanzo lo copre l’impresa. Ma se quei soldi tornano poi alla Regione che ha sforato, è evidente che il meccanismo diventa un premio a chi sfora di più. Più spendi, più incassi. È un controsenso. La quota a carico delle aziende andrebbe quindi eliminata, lasciando alle Regioni la piena responsabilità della programmazione, con un tetto di spesa chiaro e vincolante. Sarebbe una soluzione semplice, che riporterebbe razionalità e trasparenza».

Negli ultimi anni la spesa sanitaria è cresciuta meno dell’inflazione. Come garantire sostenibilità al Servizio sanitario senza mettere a rischio i conti pubblici?

«Con una scelta politica precisa: investire di più in sanità, tagliando altrove. Le nuove regole europee impongono un contenimento medio della spesa intorno al 5 per cento. Questo significa che, al netto dell’inflazione, i margini reali sono quasi nulli. Eppure il Governo ha scelto di aumentare il Fondo Sanitario di oltre il 5,5 per cento, cioè più del limite. È un segnale politico forte, che dice chiaramente: la salute dei cittadini viene prima. In un quadro di bilancio molto rigido, destinare risorse aggiuntive a questo comparto è la dimostrazione che la sanità è tornata una priorità».

Tra i nodi strutturali, quello della sanità territoriale rimane il più complesso. Crede che la manovra possa rafforzare davvero l’assistenza di prossimità, o resterà un obiettivo sulla carta?

«Nel PNRR si è scelto di puntare sulle Case della Salute, ma è un modello ormai vecchio di vent’anni. La tecnologia, e in particolare l’intelligenza artificiale, ha già superato quella logica. La sfida oggi è riempire di contenuti quelle strutture, altrimenti resteranno scatole vuote costate miliardi. Serve ripensare la figura del medico di medicina generale, che può diventare il perno del sistema territoriale. Non un semplice “firma ricette”, ma un professionista capace di connettere il paziente alle tecnologie digitali e alle reti di assistenza».

Il riferimento alla tecnologia apre uno scenario di trasformazione profonda. Il personale sanitario è sotto pressione. Come conciliare nuove assunzioni e stipendi adeguati con i vincoli di spesa pubblica?
«Serve distinguere fotografia e prospettiva. La fotografia dice che il Fondo Sanitario è calcolato pro capite: le Regioni ricevono risorse in base al numero di abitanti, con differenze minime. Eppure il Veneto, la Lombardia o l’Emilia-Romagna funzionano molto meglio di altre. Questo significa che il problema non è solo di soldi, ma di modelli organizzativi. Bisogna avere il coraggio di copiarli.
Guardando avanti, l’intelligenza artificiale cambierà le piante organiche: meno personale amministrativo, più risorse per medici, infermieri e tecnici. Non si tratta di licenziare, ma di evolvere. Gli uffici pieni di scartoffie saranno presto un ricordo. Le macchine potranno occuparsi delle pratiche, lasciando agli operatori umani il tempo per curare davvero le persone».

Digitalizzazione e IA stanno entrando nei processi clinici e gestionali. Servono fondi dedicati?
«Non credo. Non si ferma il vento con le mani: la tecnologia avanza comunque. A parità di risorse, la direzione degli investimenti andrà naturalmente verso le soluzioni digitali che migliorano efficienza e qualità. Creare capitoli di spesa “ad hoc” rischierebbe di moltiplicare la burocrazia e di rallentare l’innovazione. È più utile garantire interoperabilità tra i sistemi regionali e accelerare l’uso dei dati in modo intelligente e sicuro».

Un’altra frontiera è quella del rapporto tra pubblico e privato. Sempre più cittadini pagano di tasca propria una parte crescente delle cure. Serve una leva fiscale o assicurativa per bilanciare il sistema?
«Prima di tutto, guardiamo i fatti: la componente pubblica gratuita in Italia è unica in Europa. Nemmeno in Gran Bretagna o in Francia esiste un servizio sanitario universalistico di questo livello. L’immigrato che arriva e viene operato gratuitamente è la prova concreta di un sistema che funziona e di cui dobbiamo essere orgogliosi.
Detto questo, è inevitabile che la componente privata cresca: aumenta la domanda di salute e, di conseguenza, cresce l’offerta. Più che inventare nuovi strumenti fiscali, servirebbe mettere ordine in ciò che già esiste. Per esempio, razionalizzare le assicurazioni sanitarie, evitare doppioni, far conoscere meglio ai cittadini i fondi integrativi. Scopriremmo che molte tutele ci sono già, ma pochi le conoscono davvero».

E in questo scenario il medico di base può avere un ruolo più centrale?
«Assolutamente sì. Bisogna valorizzarlo, anche semplificando le procedure. Faccio un esempio: chi assume farmaci per la pressione o per terapie croniche deve rinnovare la ricetta ogni mese. È un non senso. Basterebbe rendere valide le prescrizioni ripetitive per un anno intero. Si risparmierebbero tempo e risorse, liberando i medici da compiti burocratici inutili e restituendo loro il ruolo di consulenti di prossimità, capaci di orientare il paziente e prevenire le patologie».

L’ultima riflessione riguarda la dimensione politica del tema. Dopo anni di tagli ed emergenze, la sanità può tornare a essere una priorità economica nazionale?

«Vedo un ravvedimento operoso, soprattutto a sinistra. Oggi tutti parlano di investimenti in sanità, ma non dobbiamo dimenticare che i tagli più pesanti risalgono ai governi Renzi, Letta e Gentiloni, quando la spesa scese dal 6,9 al 6,2 per cento del Pil. In quegli anni la sanità era descritta come fonte di sprechi: una visione miope che ha prodotto danni. Oggi, per fortuna, si torna a considerarla un investimento per il progresso del Paese. Ora che tutti sembrano d’accordo, sarebbe utile lasciare da parte le polemiche e concentrarsi su come spendere meglio».