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Alimentare, allarme materie prime: il rincaro dei prezzi minaccia il Made in Italy

09
Dicembre 2021
Di Flavia Iannilli

La filiera del food&beverage percorre la strada in salita a causa dall’aumento dei prezzi delle materie prime alimentari, di cui l’Italia è un Paese trasformatore e non produttore. La dipendenza da tali materie rischia di mettere in crisi il Made in Italy.

Tra il 2020 e il 2021 la crisi pandemica e i blocchi del Canale di Suez e dei porti asiatici hanno avuto una ricaduta importante su importazioni ed esportazioni di tutte le merci italiane. Il calo è rispettivamente del 12,8% e del 9,7%. Per l’export non si registrava una contrazione così rilevante dalla crisi economica del 2009, quando il crollo superò il 20%. Nonostante i numeri tutt’altro che positivi, il settore agroalimentare, nel 2020, registra un import pari a 42,3 miliardi di euro mentre le esportazioni raggiungono quasi i 45 miliardi (Dati CREA 2020). Cifre che raggiungono risultati incoraggianti, sulla carta. 

I principali problemi che il settore sta scontando, infatti, sono l’aumento dei costi di materie prime alimentari e di quelle per gli imballaggi, il costo dei trasporti ed il percorso verso la transizione ecologica dei macchinari industriali.

Una delle principali preoccupazioni del settore è il prezzo del grano duro, schizzato al 100%, e quello del grano tenero aumentato del 50% rispetto al 2019. Un dato che si ripercuote sulla produzione di farine, quindi dolci e pane, e su quella della pasta. La stessa problematica viene riscontrata su cacao e caffè, prodotti sui cui l’Italia imprime il suo know how, ma che non vengono coltivati nel nostro territorio. A chiudere il cerchio ci sono mais, soia e orzo, che subiscono un incremento del 70%, sempre rispetto al 2019: in qualità di prodotti base per l’alimentazione animale pesano sulla parte agricola e industriale in maniera significativa e incidono sulla produzione di carni e derivati.

«L’industria alimentare non può farsi carico di tutti gli aumenti delle materie prime» ha detto Ivano Vancondio, Presidente di Federalimentare. «Il settore è costituito soprattutto da piccole e medie imprese – gli ha fatto eco Nicola Calzolaro, Direttore Generale di Federalimentare, intervenuto martedì nella commissione di competenza in Senato – un sistema industriale così costituito non riesce a sostenere un tale scarico di costi». Le pmi, in conclusione, denunciano di trovarsi con l’acqua alla gola, e molte rischiano di dover chiudere.

Il trasporto, seconda spada di Damocle, vede un aumento del 10% per quanto riguarda quello su gomma, su cui viaggiano soprattutto i cereali. Ma il quadro più drammatico è quello che riguarda la logistica via mare che soffre della direttiva sulle emissioni di CO2 delle grandi navi. Misura che comporta una riorganizzazione delle imprese dei trasporti. Il risultato? Un incremento generale dei costi che tocca picchi del 300%. Se in era pre-covid per spedire un container negli USA bisognava prevedere un’uscita di 2mila euro, ad oggi ne servono almeno 5mila. Per quanto l’industria italiana sia vocata all’export determinati gap rimangono difficilmente colmabili e il rincaro del 40% della plastica o dei pallet, ormai merce rara, in netto rialzo del 100%, rappresenta ulteriore peso per il sistema.

Il settore, per dirlo con le parole Calzolaro, «ha dato un segnale di resilienza». Il riferimento è al fatto che il comparto ha continuato a garantire la disponibilità degli alimenti remando anche contro l’escalation dei prezzi dell’energia e del gas, tra cui il metano, al quale attinge prevalentemente l’industria.

L’incremento dei prezzi è la conseguenza della crisi globale, niente di premeditato, ma il settore chiede un tavolo di confronto con il Governo affinché le aziende agroalimentari non diventino i 300 spartani alle Termopili, sacrificati, questa volta, per difendere il Made in Italy. 

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