Esteri

Quel doppio errore sulle elezioni francesi

12
Aprile 2022
Di Daniele Capezzone

Sono iniziate due settimane in cui, da qui al ballottaggio tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen, assisteremo a due narrazioni opposte ma ugualmente prevedibili.

Dal lato dei macronisti (francesi e italici: quasi più scatenati i secondi dei primi…), si evocherà la versione femminile di “Annibale alle porte”: la Le Pen come minaccia esistenziale, il rischio della “pericolosa destra sovranista” al potere, più un tocco di rischio putinista, e via drammatizzando.

Dal lato lepenista, in modo uguale e contrario, si cercherà “vendetta” contro anni di verticalizzazione tecnocratica, descrivendo Macron come la quintessenza, l’incarnazione stessa di un modello che bypassa i cittadini, il consenso, la democrazia.

E naturalmente – fatta la tara alle opposte esigenze di propaganda – c’è del vero, o almeno del verosimile, in entrambi i modi di raccontare le cose. Vista dal lato mainstream, un’eventuale vittoria della Le Pen sarebbe effettivamente uno choc, e un certo nervosismo di molti editorialisti ne è già un primo segno (va detto, è un nervosismo perfino divertente agli occhi di un osservatore terzo e disincantato). Vista dall’altro lato, una vittoria di Macron sarebbe la conferma – per i guerrieri dell’anti establishment – di essere figli di un dio minore, inevitabilmente destinati a soccombere dinanzi alla convergenza di poteri finanziari e mediatici che vogliono imporre un solo schema possibile di governo.

Eppure, a ben vedere, gli uni e gli altri farebbero bene a non affezionarsi al racconto più comodo per loro, a uscire dalla comfort zone più rassicurante per i rispettivi sostenitori.

Dal lato macronista, sarebbe l’ora di smetterla di demonizzare chi vota contro l’establishment. Questa idea “ortopedico-rieducativa” per cui chi non è con loro è un bifolco, un pericolo per la democrazia, è semplicemente irricevibile, oltre che ridicola. Di più: anche in caso di vittoria delle forze di establishment, questo atteggiamento è destinato a isolarle sempre di più, le riduce alla condizione di fortino assediato, le espone a una contestazione perenne. In ultima analisi, è un clamoroso autogol, un chiudersi in una bolla spocchiosa e autoreferenziale.

Dall’altro lato, sarebbe il caso di chiedersi se, oltre alle giustificatissime contestazioni rispetto a tecnocrazia e deriva oligarchica, ci sia in Europa continentale la capacità di immaginare uno sbocco costruttivo, una pars construens, oltre alla protesta e alla rabbia. Nel Regno Unito, Brexit è stata esattamente questo: e oggi la leadership di Boris Johnson ha saputo riconnettere la voglia di rottura e di cambiamento con valori antichi e propri della tradizione britannica. Il protagonismo economico e geopolitico di Londra anche in questo periodo ne è un’evidente dimostrazione.

Ecco, gli amici sovranisti europei sono sicuri di scegliere Orban e simili come propri campioni? Intendiamoci: quei leader vanno difesi dagli attacchi ingiusti, dalle demonizzazioni pregiudiziali di Bruxelles. Ma, quando si cerca un modello per noi, non sarebbe più saggio guardare a Londra e ai conservatori britannici?