Esteri
Medioriente, il punto: conflitto allargato al Libano, comunità internazionale impotente
Di Giampiero Gramaglia
Da domenica, ondate di attacchi aerei si succedono sul Libano meridionale e orientale, nella valle della Beqaa, e su quartieri di Beirut: gli obiettivi sono comandanti e postazioni degli Hezbollah, cioè i guerrieri di Dio filo-iraniani, ma fra le centinaia di vittime – circa 600 all’alba di mercoledì, oltre a circa 2000 feriti – molti sono i civili, donne e decine di bambini. Una forte esplosione a Beirut e il crollo di un edificio vengono spiegati dall’esercito israeliano con l’attacco mirato al comandante delle forze missilistiche di Hezbollah Ibrahim Qubaisi.
Secondo le cifre fornite dallo Stato ebraico, gli ordigni sganciati sulle basi della milizia sciita sono diverse migliaia. Decine, forse centinaia di migliaia i libanesi in fuga dal Sud del Paese, molti sono diretti al confine con la Siria. Il governo ha deciso di chiudere scuole e università per una settimana. Gli Stati Uniti e altri Paesi hanno invitato i loro connazionali a lasciare il Paese dei Cedri. In Libano sono i giorni più cruenti dalla guerra del 2006.
Siamo di fatto all’allargamento del conflitto, innescato quasi un anno fa dalle incursioni terroristiche di Hamas e di altre sigle palestinesi in territorio israeliano: le vittime furono 1200, gli ostaggi presi oltre 250, un centinaio dei quali non sono stati ancora restituiti alle loro famiglie. Da quel giorno, il conflitto nella Striscia di Gaza ha fatto circa 41 mila vittime palestinesi, soprattutto civili, anziani, donne, bambini.
Israele esclude per il momento operazioni di terra in Libano. Gli Hezbollah, che hanno una potenza di fuoco molto superiore a quella di Hamas, sono stati certamente indeboliti e persino «decapitati» dalle stragi dei teledroni la scorsa settimana e dagli attacchi aerei, che hanno polverizzato, fra l’altro, molti arsenali. La risposta dei miliziani s’è finora concretizzata in lanci di ordigni sul nord d’Israele, dove migliaia di persone hanno da tempo abbandonato le loro case o vivono nei rifugi: quasi tutti sono stati intercettati, alcuni hanno fatto qualche danno, pochi i feriti.
Il timore che il peggio debba ancora venire
Ma il timore diffuso è che il peggio debba ancora venire. L’Iran deve ancora replicare all’uccisione del capo di Hamas Ismail Haniyeh, eliminato a Teheran a fine luglio; Hezbollah sta certamente preparando una risposta più dura, e Israele s’è messo nella condizione di impegnare le proprie forze su vari fronti: nella Striscia di Gaza, in Cisgiordania, al confine con il Libano e con la Siria, senza trascurare le minacce che arrivano, o possono arrivare, da lontano – dagli Huthi nello Yemen, che hanno già perforato le difese israeliane – e da Teheran. Queste valutazioni tattiche erano all’origine dei molti dubbi, nel governo israeliano, sull’opportunità di un affondo in Libano.
Le guerre di Israele in Libano sono ricorrenti nella storia del Medio Oriente: letali e aspre, non sono mai state risolutive, perché la presenza ostile filo-iraniana ai confini settentrionali d’Israele è rimasta e s’è anzi radicata e rafforzata, acquisendo anche un peso politico determinante in Libano. Questa volta, il salto d’entità dello scontro è stato innescato dai lanci di razzi continui dal Libano verso il Nord di Israele ed è stata preparata dalle azioni condotte la scorsa settimana da Israele contro capi e miliziani di Hezbollah. La cronicità del confronto è un’ennesima testimonianza dell’inefficacia e della sostanziale inutilità delle Nazioni Unite: al confine tra Libano e Israele, c’è, addirittura dal 1978, con mandati più volte rinnovati e aggiornati, una forza d’interposizione dell’Onu, la Unifil, con una presenza italiana molto importante, ridotta però al ruolo di spettatore, senza capacità di prevenzione e neppure di interposizione, a dispetto del nome.
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu si rivolge ai libanesi: «La nostra guerra non è con voi, ma con Hezbollah… Nasrallah – il leader dei miliziani, ndr – vi sta portando sull’orlo del baratro». Ma in Israele le polemiche sulle scelte del premier sono incessanti: familiari degli ostaggi lo contestano perché non dà la priorità alla loro liberazione.
L’impotenza della comunità internazionale e degli Stati Uniti
La comunità internazionale è impotente. Lo dimostra la litania di discorsi all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, in corso a New York: i leader si alternano al podio, deprecano, auspicano, lanciano anatemi agli uni e agli altri, ma non fanno nulla (e forse non hanno i mezzi per fare qualcosa). Il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres constata: «Prima, c’erano linee rosse: tutti riconoscevano che non potevano essere superate. Ora, i Paesi fanno quello che vogliono».
Nell’analisi dell’AP, l’inasprimento dello scontro tra Israele e Hezbollah «rende ancora più vani – e quasi patetici, ndr – gli sforzi di Washington di evitare un allargamento del conflitto»: sono mesi, quasi un anno, che il presidente Usa Joe Biden invita Israele alla moderazione e al rispetto delle vite dei civili, denuncia una situazione umanitaria drammatica nella Striscia, media un’intesa che baratti una tregua con la restituzione degli ostaggi, senza mai cavare un ragno di pace dal buco di guerra.
Con il passare del tempo, e il suo ritiro dalla corsa alla Casa Bianca, l’influenza di Biden è andata svanendo e l’arroganza, nei suoi confronti, di Netanyahu è andata crescendo. Il premier israeliano, che non ha cancellato ma solo ritardato il suo intervento all’Assemblea generale, punta sul ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump, che non gli metterà i bastoni fra le ruote perché è favorevole a che Israele «finisca il lavoro».
Consegnando all’Onu una sorta di testamento di politica internazionale, Biden ha riflettuto sul ruolo dell’America nel mondo: ha parlato di Medio Oriente e di Ucraina e pure di altre guerre; ha lanciato un messaggio di ottimismo («il progresso è possibile», le cose possono migliorare). Ma, al tramonto del suo mandato, gli resta in mano un pugno di mosche; e, in patria e nel mondo, molti lo criticano per la timidezza e l’inefficacia delle sue mosse: ProPublica rivela che l’Amministrazione Biden sa che Israele blocca deliberatamente la distribuzione degli aiuti a Gaza, ma non fa nulla perché ciò non accada.
Più che diplomatica, a dispetto delle decine di missioni in Medio Oriente del segretario di Stato Antony Blinken e di altri esponenti statunitensi, la residua influenza degli Stati Uniti nell’area s’esercita a livello militare: quando la tensione sale, infatti, Washington aumenta la presenza navale tra Mediterraneo e Mar Rosso; e questo a tutela di Israele, per incrementare la capacità d’intercettare eventuali minacce aeree, missilistiche o con droni.
Ucraina: Zelensky, quando un piano di pace è un piano per la vittoria
Se vale per il Medio Oriente, il discorso dell’impalpabilità in questa fase del ruolo degli Stati Uniti vale anche per l’Ucraina, con la differenza che, se Netanyahu tifa Trump, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che è negli Usa in questi giorni, ha ottimi motivi per tifare la sua rivale, Kamala Harris, candidata democratica. Trump glielo rimprovera apertamente e lo declassa sprezzantemente a commesso viaggiatore di successo del suo Paese: «Ogni volta che viene qui, torna a casa con decine di miliardi di dollari di aiuti».
Al fronte tra Russia e Ucraina, la scena non muta: attacchi russi notturni sulle infrastrutture ucraine, che fanno anche vittime civili, avanzate russe limitate nel Donbass; e rilancio dell’offensiva ucraina in territorio russo, nell’area di Kursk – una brigata ucraina avrebbe sfondato le linee nemiche. All’Onu e negli Usa, Zelensky presenta un suo piano di pace, che però è un piano per la vittoria, dopo avere iniziato la sua missione visitando in Pennsylvania una fabbrica di munizioni che lavora essenzialmente per l’Ucraina.
Nei discorsi e nei contatti, Zelensky, che va anche alla Casa Bianca e vede sia Biden che Harris, sollecita gli Stati Uniti e i loro alleati europei a non lesinare aiuti e rifornimenti e soprattutto ad autorizzare il via libera ad utilizzare armamenti occidentali su obiettivi in territorio russo. Usa e Gran Bretagna e altri stanno vagliando la richiesta; Germania e Italia ed altri sono contrari.