La sensazione dopo il viaggio in Cina di Giorgia Meloni è che si sia aperta una nuova fase nei rapporti tra Roma e Pechino. Dopo il fallimento del progetto “Via della Seta” era fondamentale rinnovare il sodalizio commerciale tra i due Paesi e, dall’altro lato, provare a trainare Xi Jinping e la sua Cina nel blocco occidentale per avviare un concreto tentativo di negoziato per la pace in Ucraina. Se gli obiettivi sono stati centrati si capirà più avanti. Quello che è certo è che la missione si è svolta in un clima amichevole e collaborativo. Il “disgelo” del dialogo, accompagnato da una rivitalizzazione della cooperazione commerciale sulla rotta Roma-Shanghai, potrebbe tra l’altro fornire al governo la possibilità di spendersi a Bruxelles come interlocutore privilegiato del Dragone, messaggio lasciato intendere da Meloni al Presidente Xi Jinping nel lungo incontro alla Diaoyutai State House.
La Meloni ha voluto dimostrare che uscire dalla Via della Seta non lederà alla cooperazione con il Gigante asiatico, ma che si possono fare affari più e meglio fuori dalla Bri, vedi Francia e Germania. “La bilancia commerciale nel 2022, quando siamo arrivati noi – ha spiegato la premier – produceva un disavanzo per l’Italia di 41 miliardi di euro, quindi evidentemente non ha funzionato. Io ho sempre detto che l’Italia avrebbe dovuto uscire dalla Via della Seta e che questo non avrebbe compromesso i rapporti con la Cina”.
Il clima di tendenziale armonia, suggellato anche dalle Olimpiadi di Parigi, che stanno tenendo incollati agli schermi gli appassionati di sport di tutto il mondo, non ha tuttavia minimamente influenzato la regione mediorientale, dove invece la tensione sta preoccupantemente aumentando. Gli eventi degli ultimi giorni hanno visto precipitare rapidamente ogni speranza di una possibile ripresa del dialogo. Tra martedì e mercoledì, infatti, è stato assassinato a Teheran, in circostanze al momento oscure, il capo politico di Hamas Ismail Haniyeh; è stato eliminato a Beirut, in un raid israeliano, un comandante di Hezbollah, Fuad Shukr; è stata attaccata in Iraq la base d’una milizia filo-iraniana (tre i morti): azioni non tutte rivendicate, ma tutte ascrivibili, di primo acchito, a Israele, che avallano le parole del ministro della Difesa israeliano Yoav Gallant, “Non c’è posto dove non possiamo colpire”. Hamas e Hezbollah hanno minacciato ritorsioni, le uccisioni di Haniyeh e Shukr “non resteranno impunite”.
Gli eventi segnano l’ennesimo brusco innalzamento della tensione nella Regione, già infiammata, tra sabato e domenica scorsi, dall’attacco israeliano su una scuola per bambine che alloggiava rifugiati a Deir al-Balah, nella Striscia di Gaza – una trentina le vittime – e dal “massacro del campo di calcio” di domenica: 12 ragazzini drusi, bambini e teenagers, che giocavano a calcio a Majdal Shams, villaggio sulle colline del Golan occupate da Israele da quasi 60 anni, perdono la vita quando un razzo s’abbatte su di loro.
L’ombra tragica di un allargamento del conflitto mediorientale s’allunga sull’estate.