Esteri

Il vertice Nato, il riarmo tedesco e la strategia italiana

26
Marzo 2022
Di Alberto de Sanctis

Il presidente del Consiglio Mario Draghi ha preso parte a tutti gli eventi in programma il 24 e 25 marzo a Bruxelles: il vertice Nato, la riunione dei capi di Stato e di governo dei paesi G7 e il raduno del Consiglio europeo. A imporre una calendarizzazione tanto ravvicinata dei principali fori occidentali è naturalmente la crisi innescata dalla Russia con l’invasione dell’Ucraina. In questa fase di profonda incertezza, gli alleati vogliono ostentare compattezza e sentono l’esigenza di un maggior coordinamento reciproco per rispondere a Mosca sul piano economico, strategico e culturale.

L’incontro principale ha riguardato l’Alleanza Atlantica – che si è riunita nel suo vertice più rilevante di sempre dalla fine della guerra fredda. Con la dichiarazione congiunta, la Nato ha condannato aspramente l’aggressione russa e la retorica «irresponsabile e destabilizzante» del presidente Vladimir Putin.

Eppure, al di là degli inviti a cessare le ostilità e delle promesse di nuove sanzioni, per non parlare dell’impegno a fornire nuove armi all’Ucraina e del monitoraggio sui crimini di guerra, gli alleati possono o vogliono fare molto poco. Ciò nonostante gli appelli del presidente ucraino Volodymyr Zelensky, che sta facendo legittimamente di tutto per trascinarli in guerra contro Mosca.

L’invio di truppe nel paese aggredito è escluso (la provocazione polacca parlava di peacekeepers, ma è stata respinta al mittente), così come l’interdizione dello spazio aereo sui cieli ucraini – una mossa invisa in primo luogo agli americani poiché porterebbe allo scontro diretto con i russi. Lo spettro di una guerra contro Mosca è da scongiurare a tutti i costi visto che farebbe esplodere il rischio di una guerra nucleare nel Vecchio Continente.

Anche il dispiegamento di 40 mila militari sul fianco orientale della Nato e l’istituzione di altri quattro gruppi tattici multinazionali in Bulgaria, Ungheria, Romania e Slovacchia non servono certo a porre fine ai combattimenti nell’ex repubblica sovietica offesa, quanto piuttosto a proteggere i membri dell’Alleanza.

Il passaggio più significativo del documento riguarda l’invito alla Cina a non sostenere lo sforzo bellico della Russia e a non fornire a Mosca soluzioni per eludere le sanzioni occidentali. Si tratta di un’ammissione implicita del fatto che le misure punitive approntate da Washington e Bruxelles in queste settimane potranno trovare piena attuazione soltanto con la collaborazione dei grandi paesi non occidentali.

Il che non è affatto scontato, anzi, visto che oltre alla Cina, anche India, Pakistan, Corea del Sud, Iran, Turchia, Brasile e Messico si sono prontamente smarcati dall’applicazione della sanzioni. Tanto che lo stesso presidente Zelensky – intervenuto da remoto al vertice belga – ha ammesso che il suo paese è finito in una sorta di zona grigia tra la Russia e la Nato.

Un altro dato rilevante della due giorni di vertici è stata la presenza in Europa del presidente Usa Joe Biden, che subito dopo gli incontri di Bruxelles è volato in Polonia per passare in rassegna le truppe americane dislocate nel paese est-europeo e incontrare il presidente Andrzej Duda.

Questa visita, unita al potenziamento del dispositivo Nato a oriente, conferma la rilevanza assunta da Varsavia nello schieramento militare est-europeo degli Stati Uniti. I polacchi sono fra i più esposti alle ripercussioni del conflitto (sin qui hanno accolto oltre 2 milioni di profughi ucraini) e sperano in un approfondimento della loro relazione securitaria con la superpotenza.

Oltre alla guerra scatenata dai russi che ne lambisce le frontiere sud-orientali, la Polonia registra con timore l’annunciato riarmo di Berlino – ovvero ciò che costituisce la conseguenza senza alcun dubbio più rilevante dell’attuale crisi continentale. Assieme alla Russia, per Varsavia la Germania incarna infatti la tradizionale fonte di apprensione e la sua eventuale rinascita militare non può lasciare indifferenti.

A fine febbraio il cancelliere Olaf Scholz ha annunciato l’intenzione di investire subito cento miliardi di euro nella Difesa e di portare la spesa militare a oltre il 2% del pil tedesco ogni anno. In questo modo la Repubblica Federale si candida a diventare la terza potenza al mondo, dietro a Stati Uniti e Cina, per quanto riguarda le spese per le Forze armate.

La rivoluzione di Scholz costituisce a tutti gli effetti il vero colpo di scena geopolitico di queste settimane. Una svolta che riguarda da molto vicino anche l’Italia, che ha nella Germania il suo principale partner economico ed è legata a Berlino da fortissimi vincoli di interdipendenza industriale.

Non a caso anche il nostro governo ha deciso di aumentare la spesa per la difesa fino al 2% del pil, in ottemperanza ai vincoli Nato e per far fronte alla nuova stagione d’instabilità europea innescata dalla guerra.

Ma questa possibile iniezione di risorse addizionali nello strumento militare tricolore avrà senso soltanto se sarà accompagnata da una vera rivoluzione culturale, capace di fornire all’Italia gli strumenti per dotarsi finalmente di una strategia nazionale inquadrata nel suo sistema di alleanze più o meno cogenti.

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