Esteri
Il nuovo paradigma della sicurezza occidentale: dal G7 alla NATO
Di Beatrice Telesio di Toritto
Nel corso dell’ultima settimana, l’asse della politica internazionale si è intensamente concentrato sul Nord America e sull’Europa, dove due appuntamenti cruciali – il vertice G7 a Kananaskis (Canada) e il summit NATO in programma all’Aja – stanno segnando una ridefinizione dell’architettura di sicurezza occidentale. Un processo che non è isolato rispetto alla politica interna dei singoli paesi, ma che riflette e, in alcuni casi, accelera dinamiche di consolidamento del potere, come mostra il dibattito italiano sul terzo mandato.
Il G7 del 16–17 giugno ha assunto un carattere straordinariamente politico, sebbene nato con finalità economiche. La premier italiana Giorgia Meloni, nel pieno della transizione verso un ruolo sempre più incisivo nella diplomazia internazionale, ha preso parte a un summit segnato dall’escalation militare tra Israele e Iran. La discussione tra i leader occidentali si è rapidamente spostata dalla cooperazione economica a una preoccupata riflessione sull’ordine globale. Le dichiarazioni ufficiali parlano di una “condanna all’aggressività iraniana” e di “solidarietà con Israele”, ma in controluce si legge il tentativo, mai del tutto compiuto, di tenere insieme fermezza e cautela. La crescente imprevedibilità del fronte mediorientale – in un momento in cui anche gli Stati Uniti, soprattutto con il ritorno di Trump alla Casa Bianca, oscillano tra retorica bellicista e calcolo geopolitico – ha rafforzato la convinzione europea che la sicurezza non possa più essere semplicemente “importata” da Washington.
È in questa cornice che si innesta il prossimo vertice NATO a L’Aja (24 – 26 giugno), che si preannuncia come uno spartiacque. Al centro della discussione vi è la proposta, promossa da alcuni membri dell’Alleanza, di aumentare la spesa militare fino al 5% del PIL. Un salto che segnerebbe la fine definitiva dell’“era della pace” post-Guerra Fredda. Il concetto stesso di “difesa” viene riformulato: non più solo arsenali e soldati, ma anche infrastrutture civili, cybersicurezza, autonomia energetica. È l’embrione di una difesa europea integrata, con la NATO come cornice, ma con una voce più assertiva dell’UE.
Nel frattempo, sul fronte interno, l’Italia è attraversata da una discussione che, seppure apparentemente di respiro locale, ha implicazioni strategiche tutt’altro che marginali: la possibilità di introdurre un terzo mandato per i presidenti di Regione. Dietro la tecnicalità normativa si cela un confronto più ampio e delicato sull’equilibrio tra rappresentanza democratica e continuità amministrativa.
La proposta nasce in un contesto segnato da forti personalizzazioni del potere locale, dove alcune figure di spicco – come i presidenti delle Regioni Veneto e Lombardia – sono percepite non solo come amministratori, ma come veri e propri attori politici nazionali. Il loro peso negoziale con lo Stato centrale, specialmente in materia di autonomia e gestione delle risorse, è cresciuto in parallelo alla loro permanenza in carica. Per questo, l’ipotesi di consentire un terzo mandato viene sostenuta da chi ritiene che la stabilità e l’esperienza siano oggi requisiti imprescindibili per affrontare crisi complesse, dalla sanità alle emergenze climatiche, fino alla gestione dei fondi europei.
Tuttavia, questa prospettiva apre anche a riflessioni più ampie sul rapporto tra stabilità amministrativa e qualità della democrazia. In un momento in cui, a livello internazionale, si accentua l’esigenza di decisioni rapide e strutture di governo efficienti, è naturale domandarsi se il prolungamento dei mandati sia una risposta coerente o se rischi di incidere sugli equilibri istituzionali. Il principio dell’alternanza resta infatti un cardine delle democrazie mature, utile a garantire rinnovamento, pluralismo e rappresentatività.
Il dibattito sul terzo mandato, dunque, non si limita a una modifica di carattere tecnico o normativo. Esso chiama in causa una visione più generale del ruolo delle istituzioni locali e del modo in cui il sistema politico intende affrontare le sfide contemporanee: tra l’esigenza di continuità e la tutela di un ricambio fisiologico delle leadership, in un equilibrio che resta delicato e tutto da calibrare.
