Esteri

Guerre: Ucraina e Israele–Hamas, quasi due anni e ormai quattro mesi di stragi senza sbocco

07
Febbraio 2024
Di Giampiero Gramaglia

La guerra tra Israele e Gaza entra nel quinto mese, l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia sta per compiere due anni. Né su un fronte né sull’altro, c’è un barlume di speranza di pace; anzi, in Medio Oriente il rischio di un allargamento del conflitto non è mai stato così’ elevato, anche se c’è fermento di negoziati per una tregua; il fronte ucraino è fermo e non c’è aria di trattative.

E una notizia tragica, ma non del tutto inattesa, offusca l’ennesima missione diplomatica intrapresa domenica nella Regione dal segretario di Stato Usa Antony Blinken: oltre un quinto dei più di 130 ostaggi che si pensava fossero ancora nelle mani di Hamas e di altre sigle terroristiche palestinesi sono morti, 32 su 136 secondo un rapporto dell’intelligence militare israeliana diffuso dal New York Times.

Guerre: Israele-Hamas, il punto delle trattative
La rivelazione getta un’ombra sui negoziati in atto per il rilascio degli ostaggi in cambio – si fanno varie ipotesi – del ritiro degli Israeliani dalla Striscia di Gaza o di una tregua più o meno prolungata e della liberazione di detenuti palestinesi dalle carceri israeliane. Manca il dettaglio delle circostanze delle morti, cioè se gli ostaggi siano stati vittime di violenze dei carcerieri, dei combattimenti tra Israeliani e Palestinesi o dei bombardamenti. Blinken cerca di condurre in porto la trattativa tra Israele e Hamas mediata, oltre che dagli Usa, da Qatar ed Egitto; ed anche – e forse soprattutto – a evitare un ampliamento della guerra, specie dopo la reazione americana agli attacchi letali contro truppe Usa di milizie appoggiate dall’Iran in Iraq e in Siria e le reiterate incursioni anglo-americane contro postazioni degli Houthi in Yemen da dove minacciano con droni navi commerciali in navigazione nel Mar Rosso.

Lunedì, Blinken ha incontrato il principe ereditario saudita Mohammed bin Salman, l’uomo forte del regime di Riad, e ha discusso di un “coordinamento regionale” per porre termine al conflitto nella Striscia di Gaza: la fine delle ostilità lì spegnerebbe – o almeno smorzerebbe – in tutta l’area i focolai di tensione. Martedì, era in Egitto, con un’agenda più concentrata su un’intesa tra Israele e Hamas, che, dalla fine di novembre, non si sono più accordati su una tregua e uno scambio ostaggi / prigionieri. E poi altre tappe, cruciali quelle in Israele e nei Territori.

Il Segretario di Stato è anche latore di piani per l’assetto della Striscia dopo la guerra, con Israele che continua a bocciare le prospettive del doppio Stato e del ritiro dalla Striscia, restituendola, di fatto, ai Palestinesi. A medio termine, la credibilità negoziale degli Stati Uniti è indebolita proprio dalla rigidità del premier israeliano Benjamin Netanyahu sulle soluzioni a medio e lungo termine. Invece, la proposta a breve, messa a punto da Usa, Egitto e Qatar, di un cessate-il-fuoco di alcune settimane in cambio di uno scambio ostaggi-prigionieri sembra in stallo: Hamas dice che nessun ostaggio sarà più rilasciato fino alla cessazione delle ostilità, che Israele non prevede; e Israele si irrigidisce sul rilascio dei prigionieri. Nelle ultime ore, segnali di ottimismo sono arrivati dal Qatar, ma i negoziati ci hanno ormai abituato all’alternanza di speranze e delusioni: Hamas avrebbe mostrato “un atteggiamento positivo”, ma continua a subordinare il rilascio degli ostaggi alla cessazione delle ostilità. Anche la Gran Bretagna affianca gli Stati Uniti nella pressione, fin qui sterile, su Israele: all’Ap, il ministro degli Esteri David Cameron dice che Londra potrebbe riconoscere lo Stato palestinese dopo un cessate-il-fuoco a Gaza, senza attendere il consenso d’Israele.

Guerre: Medio Oriente e Ucraina, il contesto geo politico
Su Foreign Affairs, due specialisti di Medio Oriente, Dalia Dassa Kaye e Sanam Vakil, scrivono che “aspettarsi che gli Usa possano davvero gestire la crisi di Gaza e confezionare una pace duratura e stabile nel Medio Oriente sarebbe come aspettare Godot”. In un articolo intitolato “Solo il Medio Oriente può aggiustare il Medio Oriente”, i due analisti notano che “le dinamiche attuali regionali e globali rendono impossibile per Washington giocare un ruolo dominante”. Lato Ucraina, Nathalie Tocci, direttore dell’Istituto Affari Internazionali, scrive che “l’invasione dimostra che il mondo attuale è, nello stesso tempo, bipolare, multipolare e ‘non polare’… C’è una forma di bipolarità crescente: si rafforzano le relazioni transatlantiche e la cooperazione nell’ambito del G7 ampliato, di fronte alla Russia ma anche a raggruppamenti non occidentali, come i Brics allargati, dove la Cina è la principale protagonista. Nello stesso tempo, ci sono tracce di multipolarità, con Paesi di medie dimensioni che rifiutano di allinearsi sia agli uni che agli altri e cercano di cogliere le opportunità loro offerte da entrambi gli schieramenti. E, infine, la ‘non polarità’ è rappresentata da quei Paesi che, astenendosi ad esempio dal condannare all’Onu la Russia, hanno essenzialmente testimoniato la volontà di tenersi fuori dal conflitto, essendo più preoccupati dalle potenziali conseguenze globali che dalle cause regionali”.

Su queste dinamiche geopolitiche, si innestano quelle interne ai vari Paesi: quelle Usa hanno un peso speciale. Se in Russia il presidente Vladimir Putin si appresta ad affrontare, domenica 17 marzo, un test elettorale sulla carta senza suspense; e se invece in Israele il premier Netanyahu teme l’eventualità di un ritorno alle urne, che potrebbe essergli politicamente fatale; entrambi guardano alle presidenziali del 5 novembre negli Stati Uniti e scommettono sul ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump; oggi un’eventualità possibile.

Guerre: l’incidenza delle dinamiche interne agli Stati Uniti
E i comportamenti di Trump e dei Repubblicani che lo seguono incoraggiano le loro speranze, specie quelle di Putin. C’è in Senato una bozza di accordo bipartisan che sblocca aiuti Usa all’Ucraina, a Israele e a Taiwan, in cambio di un aumento dei fondi per contrastare l’immigrazione dal Messico: il presidente Joe Biden lo appoggia, ma Trump, tramite lo Speaker della Camera, Mike Johnson, lo boccia – “E’ morto”, dice Johnson, ancora prima di vederlo: Kiev può attendere -. Al termine di un week-end di trattative, i senatori Democratici e Repubblicani hanno concordato misure per 118 miliardi di dollari, di cui 60 all’Ucraina, 14 a Israele ed una ventina per la ‘difesa’ dei confini con il Messico. Al momento, è la migliore opportunità per il presidente Biden di poter continuare a fornire aiuti a Ucraina e a Israele e di affrontare il problema dei migranti.

Ma i ‘trumpiani’ sono pronti a dare battaglia, in Senato, dove i democratici sono comunque maggioranza, e alla Camera, dove i repubblicani hanno la maggioranza. Se la misura fosse approvata, infatti, toglierebbe qualche castagna dal fuoco all’Amministrazione Biden. Cosa che Trump, che punta a sfidare Biden nelle presidenziali, non vuole fare. L’intesa comporta un giro di vite sulle richieste d’asilo e l’espulsione degli immigrati senza requisiti. Se approvata, la legge sarebbe la più aggressiva del XXI Secolo su sicurezza dei confini e immigrazione.

L’ok della Camera è tuttavia estremamente difficile, in parte per l’ostilità di Trump e in parte perché, tra i Repubblicani, c’è una crescente ostilità a ulteriori aiuti all’Ucraina. Johnson scrive che “questo accordo è peggio di quanto ci aspettavamo e non riuscirà a risolvere la catastrofe lungo il confine creata dal presidente Biden”. Trump sollecita i Repubblicani in Congresso a bocciare il compromesso: “Soltanto uno sciocco, o un Democratico della sinistra radicale, voterebbe per questo disegno di legge orrendo sui confini che è un regalo ai Democratici”, scrive sul suo social Truth. “Ci vuole una legge su frontiere e immigrazione che non sia legata in alcun modo agli aiuti esteri”.

Guerre: Israele – Hamas, gli sviluppi nella Striscia e nella Regione
Il ministero della Difesa israeliano assicura che i capi di Hamas “sono in fuga”, ma un portavoce dell’organizzazione palestinese afferma che i suoi miliziani “sono ancora operativi in tutte le aree della Striscia di Gaza”. In quattro mesi, la guerra, innescata dai raid terroristici in territorio israeliano del 7 ottobre – 1200 vittime e circa 250 ostaggi catturati – ha fatto circa 28 mila vittime palestinesi, senza contare i morti in CisGiordania e al confine tra Libano e Israele. E la questione umanitaria, aggravata dal blocco dei finanziamenti all’Unrwa da parte di alcuni Paesi fra cui l’Italia, peggiora di giorno in giorno: l’Agenzia dell’Onu che si occupa dei palestinesi potrebbe dover cessare l’attività il 20 febbraio. I finanziamenti sono stati sospesi dopo che Israele ha denunciato connivenze tra l’Unrwa e Hamas e ha accusato una dozzina di dipendenti dell’Agenzia di avere partecipato ai raid terroristici del 7 ottobre. Il lavoro e gli aiuti dell’Unrwa sono essenziali per la sopravvivenza di circa sei milioni di rifugiati, non solo a Gaza.

La virulenza dei coloni contro i palestinesi dei Territori – e pure i manifestanti pacifisti – ha indotto il presidente Biden a colpire con sanzioni amministrative e finanziarie alcuni coloni identificati come responsabili di violenze. Biden vuole così sottrarsi alle critiche crescenti per la sua posizione pro-israeliana a per l’inefficacia della sua azione di ‘moral suasion’ sul Governo Netanyahu. Le misure, prese con un ordine esecutivo, cioè con un ‘motu proprio’ presidenziale, è stata annunciata – non a caso – mentre il presidente si appresta a visitare il Michigan, lo Stato dell’Unione con la più alta percentuale di musulmani. La situazione in tutta l’area s’è ulteriormente infiammata dopo che la Casa Bianca, come aveva preannunciato, ha dato il via a raid sulle postazioni di gruppi filo iraniani in Iraq e Siria, in risposta agli attacchi subiti, uno dei quali – attribuito al gruppo Kataib Hezbollah della Resistenza islamica in Iraq – aveva provocato la morte in Giordania di tre militari Usa (due uomini e una donna). Le ritorsioni americane si sono cumulate alle azioni anglo-americane contro gli Houthi nello Yemen.

Il bilancio dei raid con aerei, droni e missili, cominciati nella notte tra venerdì 1 e sabato 2, è complessivamente di decine di vittime, nonostante le milizie pro-iraniane abbiano avuto il tempo per cercare rifugio per lasciare le loro postazioni. E ci sono pure stati contrattacchi: sei morti, tutti curdi, in una base che ospita militari americani in territorio siriano, attaccata con droni. L’intelligence statunitense attribuisce l’azione contro le Forze democratiche siriane, guidate da curdi e appoggiate dagli Usa, “a mercenari appoggiati dal regime siriano”: teatro, la base d’addestramento di al-Omar, nella provincia siriana orientale di Deir el-Zour.

Le azioni stanno creando un effetto domino. L’Iran, che non è stato ancora preso di mira direttamente, protesta. Hamas condanna i raid che sono come versare “benzina sul fuoco” in tutta l’area. Ma i fondamentalisti islamici hanno anche conflitti interni; l’ala politica punta a un cessate-il-fuoco permanente, e invoca in cambio il ritiro totale dell’esercito israeliano; l’ala militare, invece, vorrebbe accettare anche pause dei combattimenti brevi. La questione della tregua è delicata anche per Israele: i parenti degli ostaggi organizzano manifestazioni di protesta a raffica contro il premier Netanyahu e il suo governo. Per garantire la libertà di navigazione nel Mar Rosso, l’Ue lancia la missione navale Aspides, che sarà operativa il 19 febbraio e che sarà posta sotto comando italiano: non tutti i Paesi dell’Ue vi partecipano, ma “nessuno vi si oppone”, spiega il capo della diplomazia europea Josep Borrell. Aspides, le cui regole di ingaggio sono in via di definizione, avrà un carattere essenzialmente difensivo e “non condurrà nessuna operazione via terra” in Yemen. “La missione navale Aspides è importante per l’Europa e per l’Italia”, afferma Alessandro Marrone, responsabile del programma Difesa dello IAI. “È una missione impegnativa, un passo in avanti per l’Europa della difesa”.

Guerre: Ucraina, l’Ue approva gli aiuti, gli Usa no, Mosca è sorniona, Kiev è febbrile
Senza gli aiuti degli Usa, la capacità di resistenza dell’Ucraina è un’incognita, nonostante i leader dell’Ue sblocchino il 1° febbraio aiuti per 54 miliardi di euro in quattro anni, superando le riserve del premier ungherese Viktor Orban. Mosca è sorniona; Kiev è febbrile di ansie e di tensioni, con le frizioni interne fra il presidente Volodymyr Zelensky e i vertici militari, che chiedono di estendere il reclutamento, ammettendo d’avere subito gravi perdite: nel giorno in cui Borrell giunge in visita con il dono degli aiuti, Zelensky chiede una proroga della legge marziale, segno che non si vede la fine della guerra e che ci sono fermenti nel Paese.

Le cronache registrano, ogni notte, bombardamenti incrociati con droni e missili, più intensi quelli russi, mirati sulle infrastrutture militari e industriali; più sporadici quelli ucraini, che però centrano una raffineria di San Pietroburgo. L’attacco con più vittime civili è quello ucraino su una panetteria di Lisichansk nel Lugansk, provincia ucraina annessa alla Russia dopo l’invasione: decine i morti. Il Cremlino parla di “atto terroristico mostruoso”; Kiev replica di avere colpito un locale frequentato “da collaboratori del nemico”, fra cui il ministro dell’Emergenza Aleksey Poteshchenkoi che risulta fra le vittime. In prima linea, o sul fronte diplomatico, non accade nulla di rilevante. Uno scambio di prigionieri, 195 per parte, avviene una settimana dopo l’abbattimento di un aereo russo che secondo Mosca portava militari ucraini ad essere scambiati e secondo Kiev trasportava rifornimenti di armi. La Corte di Giustizia internazionale si riconosce competente a esaminare la richiesta ucraina d’accertare che non c’è stato genocidio, dal 2014 al 2022, nelle regioni russofone del Paese – Mosca giustifica l’invasione proprio con l’accusa di genocidio nel Lugansk e nel Donetsk -. E un’inchiesta del Washington Post accerta che molte componenti essenziali per l’industria militare russa arrivano da Taiwan, nonostante le sanzioni e la vicinanza di Taipei a Washington.

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