Esteri
“Fermate la corruzione, non i social” così il Nepal fa i conti con la rabbia generazionale
Di Marta Calderini
Poche cose calzano a pennello con l’espressione “la goccia che fa traboccare il vaso” come ciò che è successo in Nepal nelle ultime settimane.
All’inizio di settembre il governo nepalese ha annunciato, quasi all’improvviso, il blocco di oltre venti piattaforme social, da Facebook a YouTube, passando per WhatsApp e X. La decisione era stata giustificata come misura per limitare i commenti di odio, la criminalità e le notizie false, ma è apparsa subito a molti come un atto di censura. Nel giro di poche ore le strade di Kathmandu si sono riempite di giovani, ma sarebbe tanto semplice quanto miope ridurre queste proteste solo alla reazione di una generazione cresciuta sui social. La precarietà economica, l’assenza di prospettive di futuro, il nepotismo e la corruzione dilagante nel Paese mettono a dura prova l’equilibrio sociale da decenni. La censura dei social è stata solo, appunto, la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Le prime manifestazioni sono state represse con durezza, tanto che la polizia ha aperto il fuoco sui cortei, uccidendo almeno 19 persone. La violenza ha scosso il Paese e in poche giornate i cortei sono diventati decine di migliaia, il Parlamento e diversi edifici governativi sono stati dati alle fiamme, e le residenze dei leader politici assaltate. Persino figure di primo piano come Sher Bahadur Deuba, già primo ministro e capo del partito di governo, sono stati aggrediti per strada.
Il primo ministro Khadga Prasad Sharma Oli ha provato a resistere, promettendo inchieste e compensazioni per le famiglie delle vittime, ma la pressione era ormai insostenibile e le dimissioni sono rapidamente diventate inevitabili.
La caduta del governo, però, non ha placato le proteste. La cosiddetta Gen Z, ragazzi e ragazze nati tra la fine degli anni Novanta e il 2010, che animava le proteste, è la generazione che paga il prezzo più alto della stagnazione economica di un Nepal formalmente democratico ma segnato da crisi politiche croniche, governi effimeri e una corruzione sistemica. La disoccupazione giovanile supera il 20%, mentre il 12,6% della forza lavoro è disoccupata. Molti giovani non vedono alternative se non l’emigrazione: nel solo 2024 oltre 740mila nepalesi hanno lasciato il paese per cercare impiego all’estero. Uno dei motori cruciali delle proteste sono le rimesse, da cui il Nepal è inevitabilmente dipendente, ovvero i trasferimenti di denaro dall’estero verso il paese. Lo scorso anno i nepalesi all’estero hanno inviato a casa oltre 14 miliardi di dollari, oltre un quarto del PIL nazionale. Questo flusso sostiene le famiglie, ma alimenta le disuguaglianze tra chi sopravvive grazie a chi parte, e le élite politiche. Questa distanza è diventata ancora più tangibile quando i figli di alcuni politici hanno cominciato a ostentare la loro ricchezza postando sui social vacanze in resort esclusivi, auto di lusso, oggetti costosi. I “nepo kids” sono diventati l’immagine plastica di un sistema che concentra ricchezza e potere in poche famiglie e lascia ai giovani la prospettiva dell’esilio economico. Ma ancora: “l’odio di classe”, da solo, non spiega questa reazione di massa.
L’instabilità nepalese, infatti, ha radici profonde: dalla guerra civile maoista che ha portato all’abolizione della monarchia nel 2008, si sono susseguiti 13 governi – per fare un paragone con un paese che notoriamente non brilla per stabilità politica, nello stesso periodo, in Italia, ne abbiamo avuti 9. Partiti dominanti come il CPN-UML di Oli e il Congresso Nepalese hanno continuato a spartirsi il potere, mentre nuovi collettivi giovanili come Hami Nepal hanno iniziato a emergere come voci alternative. La rivolta della Gen Z, in questo senso, non è un’anomalia isolata ma è parte di un’ondata proteste nate dal basso e dai giovani che sta attraversando il subcontinente indiano. In Sri Lanka, nel 2022, il movimento Aragalaya aveva portato alla caduta della famiglia Rajapaksa in pieno collasso economico. In Bangladesh, nel 2024, furono le proteste studentesche contro le quote nel servizio civile a scuotere il regime. In tutti questi casi, la frattura generazionale ha messo in crisi istituzioni fragili, incapaci di costruire fiducia tra giovani e potere.
Giovani che non si sono fatti intimorire dal blocco dei social e hanno saputo sfruttare altre piattaforme per organizzarsi, confrontarsi, discutere proposte e mobilitarsi. La chat gestita da Hami Nepal su Discord, un servizio di chat di gruppo particolarmente noto tra gli appassionati di videogiochi, ha superato i 150mila membri ed è proprio in questo contesto che è emersa la proposta di candidare l’ex giudice capo Sushila Karki. Candidatura che nel giro di pochi giorni è diventata realtà: il presidente Poudel ha nominato Karki prima ministra ad interim, la prima donna nella storia del Nepal a ricoprire l’incarico. Una scelta sorprendente, che riflette tanto la pressione della piazza quanto la necessità di trovare una figura di compromesso.
Il presidente, in seguito, ha sciolto il Parlamento e convocato elezioni anticipate il 5 marzo. Resta da capire se il movimento giovanile che ha portato alla nomina inedita di un “primo ministro scelto su Discord” saprà trasformarsi in un progetto politico stabile che possa presentarsi alle elezioni in primavera. Ciò che è certo è che la Gen Z non accetta più di emigrare in silenzio, rifiuta l’idea di un futuro scritto altrove e ha trovato la forza di abbattere un governo.





