Esteri

Missioni di solidarietà in Ucraina. L’intervista a Ugo Cappellacci

05
Maggio 2022
Di Flavia Iannilli

La guerra in Ucraina ha messo l’Europa di fronte ad una grave crisi umanitaria, una delle più gravi dalla fine del secondo conflitto mondiale. Dall’invasione russa ad oggi sono fuggite dal paese oltre cinque milioni di persone, un numero ancora più alto se si considerano gli sfollati interni. L’Italia ha dato ospitalità ad oltre centomila ucraini, in maggioranza minori e donne, attivando un’imponente macchina di solidarietà che ha visto coinvolti, Protezione Civile, Esercito, regioni, enti locali, ma anche parlamentari. Ugo Cappellacci, presidente dell’Unione interparlamentare per l’amicizia tra Italia e Ucraina ha preso parte a tre missioni di solidarietà con l’obiettivo di mettere in salvo centinaia di bambini con le loro mamme adottive.

Secondo l’Onu dalla data dell’invasione russa sarebbero oltre 5 milioni gli sfollati Ucraini, 7,7 milioni quelli interni. Lei in qualità di presidente del comitato di amicizia è stato uno dei primi a mobilitarsi per l’accoglienza dei profughi. Quante persone è riuscito a mettere in salvo? Avete in progetto altre missioni di salvataggio?
«Noi per ora abbiamo svolto tre missioni. La prima sul confine polacco. La seconda in Romania attraverso il confine moldavo, in cui abbiamo avuto l’assistenza dell’esercito italiano e della Protezione Civile e siamo partiti con un volo militare che da Bucarest ci ha portati direttamente a casa. La terza nuovamente in Polonia, noleggiando lì due pullman da Cracovia. Ci siamo occupati dei bambini orfani. Insieme al console onorario di Ucraina abbiamo contattato direttamente l’ex ambasciatore Ucraino a Roma che attualmente ha un incarico (viceministro al ministero delle politiche sociali). Tra i tanti problemi emersi, Da questa telefonata sono emersi una serie di problemi, ma uno dei più importanti era proprio quello dei bambini che vivevano nelle case famiglia, soprattutto nelle zone di Odessa e del Donbass. Le due zone sono state sfollate immediatamente e i bambini dovevano essere portati in salvo, da questa chiamata ne deriva la nostra tempestività e disponibilità. Questo colloquio è intercorso sabato 26 febbraio, a meno di 48 ore dall’inizio del conflitto, il sabato successivo noi eravamo con i pullman carichi di bimbi e mamme adottive sulla via del rientro. È stata un’operazione lampo. L’85% delle persone salvate sono donne e bambini, perché per gli uomini vige la legge marziale, quindi si arruolano per proteggere il paese. Sono bimbi che hanno già subito traumi con l’aggravante di aver visto la guerra, perchè purtroppo hanno fatto in tempo a sentire e vedere con i loro occhi le bombe. Nella prima missione ne abbiamo portati via tra i 70/80 comprese le mamme. Ciascun genitore parte da un minimo di quattro bambini affidati in su. Abbiamo portato una famiglia con 11 bambini ed entrambi i genitori, perché per le famiglie numerose ci sono delle deroghe sulla legge marziale, due figli naturali e sette adottivi. Nel successivo viaggio ne abbiamo salvati una 50ina, abbiamo raggiunto un totale di circa 200 persone».

Avere una guerra “convenzionale” in Europa non è facile da accettare, tanto meno da immaginare. Che scenario si è trovato davanti una volta arrivato al confine?
«La prima volta è successa una cosa particolare. Abbiamo dovuto varcare il confine e avvicinarci alla città di Leopoli. Era tarda sera. Li abbiamo trovati per strada. Un gruppo di mamme e bimbi che si tenevano per mano, il mezzo che li aveva scaricati era già andato via. Con loro c’erano anche 4 cani. I bambini erano impauriti, abbiamo cercato di trasmettergli un po’ della nostra gioia, sperando che ne venissero un minimo contagiati. Lungo il viaggio si sono distesi. Abbiamo dato ai bambini degli album e dei colori, mi sono stupito di ciò che disegnavano: c’era chi rappresentava carri armati, disegnando il proiettile che usciva dal cannone in direzione delle case, o uomini con la mitragliatrice e la bandiera russa sul petto. Alcuni bambini hanno scelto di disegnare il pullman su cui erano stati trasportati fuori dal paese con dei fiori enormi. I temi che ricorrono nei disegni di questi bimbi sono toccanti e pesanti allo stesso tempo, quello che colpisce è che nella loro mente siano vive due cose estremamente reali: la paura e la speranza. La capacità di distrarsi di un bambino è più alta rispetto a quella di un adulto, sono in grado di guardare con più attenzione al lato positivo. Nell’ultima missione li abbiamo portati nella spiaggia del porto di Cagliari. Gli abbiamo dato dei palloni e vederli giocare è stata l’emozione più forte».

Esiste anche un problema relativo all’affidamento dei minori?
«Pensavo che il problema più grande sarebbe stato nell’andare a prenderli. In realtà gli ostacoli più grandi li abbiamo incontrati in Italia. Il primo ostacolo è stato quello del certificato di negatività, poi il grande ritardo nell’identificazione della destinazione finale. Quando partiamo per una missione conosciamo la destinazione con grande preavviso. L’ultima volta l’abbiamo conosciuta mentre stavamo sbarcando a Olbia. La prima mezz’ora si perde per fare l’appello, in seguito bisogna decidere l’ambito delle disponibilità, che di base sono precostituite. Se noi avessimo dovuto ragionare con questo ritmo non saremmo ancora partiti per la prima missione. La procedura di accoglienza prevede un primissimo step che dura qualche giorno a cura della Protezione Civile regionale. In questa emergenza il presidente di regione è un commissario straordinario che di norma delega la Protezione Civile regionale che dà accoglienza in strutture convenzionate. La destinazione finale invece viene data dalle prefetture, o così si spera. Purtroppo i centri a cui sono destinati sono i CAS (Centri Accoglienza Straordinaria) gli stessi a cui vengono destinati i migranti che provengono dal Mar Mediterraneo ma con problematiche totalmente diverse. Risulta chiaro che i luoghi non sono idonei a dei bambini, con le relative famiglie affidatarie, che hanno già una storia tragica alle spalle oltre alla guerra. Su questo ho fatto un’interrogazione parlamentare. La situazione non può andare avanti così».

Il conflitto potrebbe protrarsi a lungo e sarà difficile per l’Ucraina tornare alla normalità. Esiste una strategia legata all’integrazione a lungo termine degli sfollati o per il momento ci si limita all’accoglienza?
«Ho partecipato ad un incontro martedì 26 aprile alla Farnesina, con una delegazione ucraina, composta da deputati del ministero delle politiche sociali, esponenti dell’Unicef e di altre organizzazioni internazionali, con la viceministra, la protezione civile, il commissariato per i diritti dei bambini, insomma con tutte le istituzioni coinvolte per affrontare il tema dei profughi. Il problema esiste, nonostante gli ucraini siano i primi a chiederci la garanzia di rimpatrio a conflitto concluso. Questa provvisorietà non è pensabile definirla in termini di tempi effettivi. L’evoluzione del conflitto non dà buone speranze. Ho letto del viaggio di Draghi in America da Biden e assomiglia molto a quello che De Gasperi fece prima del conflitto mondiale. Se i toni salgono sempre di più un rischio c’è. Dall’altro lato abbiamo una Russia che fa carta straccia del diritto internazionale, dei diritti umani, che ha riportato indietro le lancette dell’orologio della storia a situazioni che avevamo dimenticato. Quindi noi abbiamo la Russia e la Cina che stanno approcciando a questa situazione con la forza, con evidenti mire espansionistiche all’occidente e parliamo di pericoli reali. Quindi prevedere quanto potranno stare in Italia è difficilissimo. Il protocollo questo prevede: l’integrazione. Stiano 6 mesi o 1 anno, questi bimbi non possono perdere treni della vita, sia quello della formazione, sia vita sociale, delle attività sportive, di tutto quello che serve per far crescere un bambino nel migliore dei modi. Io guardo la situazione, in quell’incontro di martedì 26 aprile c’era un grande impegno, una grande organizzazione, apparentemente una grande efficienza che però non si riscontra a livello locale. Perché ciascun bimbo che arriva ha una storia che è fatta di volumi di diverse pagine che racconta la sua esistenza. Questa documentazione è in ucraino, quindi il primo passaggio è la traduzione. Questa già richiede tempo. Poi la traduzione viene trasferita al tribunale dei minori che ne prende atto e la lavora. Poi bisogna sciogliere i nodi relativi alla diversità dei due ordinamenti. Quindi bisogna capire se le mamme adottive sono, ai fini dell’ordinamento della legge italiana, equiparabili a chi ha la rappresentanza legale, se sono le tutrici effettive o se devono essere affiancate da tutori italiani. In attesa di questi procedimenti i bambini sono ancora nelle strutture e non hanno ancora iniziato un percorso scolastico. Alcuni hanno impedimenti e limiti anche alla libera circolazione, perchè essendoci un problema di responsabilità ci sono strutture che non gli permettono di fare una passeggiata con le mamme adottive. Bisogna fare di più. Io e il console abbiamo preso i contatti con i vertici delle istituzioni nostrane e ci siamo ripromessi di interloquire nuovamente con loro, così se necessario da saltare anche il livello locale. Però, insomma, i problemi restano».

Establishment ucraino, lei ha avuto la possibilità di interfacciarsi con la classe dirigente ucraina, che idea si è fatto?
«Mi sono interfacciato con diversi livelli, quello politico e quello diplomatico e governativo. Ho trovato persone molto competenti. Ciascuno di loro parla in modo perfetto l’inglese, si comunica tranquillamente, abbiamo accompagnato alcuni di loro ad alcuni incontri istituzionali in Italia e c’era difficoltà nel comunicare perché qui c’è bisogno dell’interprete. È un indice parziale ma secondo me è sintomatico. Ho avuto modo di fare visita in Ucraina nel 2019 come UIP, unione interparlamentare, e avevamo iniziato a lavorare su un protocollo che prevedeva lo scambio di esperienze di informazioni sui differenti ordinamenti legislativi, giuridici e su determinate tematiche in particolare. Ho riscontrato un ottimo livello di democrazia, certo è ancora imperfetta. I funzionari governativi e diplomatici con i quali mi sono confrontato hanno sempre esposto grandi capacità. L’ambasciatore ucraino a Roma è attivissimo nel lavoro finalizzato a creare relazioni commerciali tra i due paesi. Si tratta di un paese occidentale europeo, Kiev capitale moderna. Quand’ero presidente della regione ho fatto una visita istituzionale in Russia, a Mosca e San Pietroburgo e in un’altra città vicino di cui non mi ricordo il nome. Il trasferimento avvenne in auto, una decina di anni fa, durante il viaggio abbiamo attraversato questo entroterra fuori da Mosca. Sembrava una baraccopoli. Ci siamo fermati in un emporio per prendere dell’acqua e sembrava di essere tornati in un film del Far West, sul banco sparsa vendevano la carne secca. Questa è la Russia: grandi ricchezze nelle mani di pochi. Certamente Mosca è moderna, bella con tutti i servizi necessari ma il resto del Paese è in una povertà assoluta. Non sono uscito dalla città di Kiev nel mio viaggio in Ucraina. Però mi sono interfacciato con molte persone e le posso confermare che i nazifascisti non li ho incontrati».

In base alla sua esperienza gli ucraini che tipo di visione hanno dell’Italia?
«Glielo spiego con un termine di paragone particolare. Il gruppo di amicizia Italia-Ucraina, prima del conflitto era composto da una ventina di persone, adesso per solidarietà siamo diventati una sessantina. Il gruppo di amicizia Ucraina-Italia, il nostro omologo, è composto da un centinaio di deputati e loro sono molto meno in parlamento tra i 400 e i 500. E loro amano moltissimo l’Italia, non solo gli ucraini chiaramente, però c’è questo interesse molto forte».

La guerra ha raso al suolo diverse città, quanto sarà importante l’Italia nella fase di ricostruzione dell’Ucraina?
«Io penso che l’Italia possa svolgere un ruolo da protagonista, lo ha fatto anche in questa fase e continua a farlo. Gli ucraini ce lo riconoscono. Zelensky ha più volte elogiato l’Italia, il comportamento del governo italiano, il popolo italiano per la grande rete di solidarietà che c’è stata e io credo che questo costituirà in qualche modo un distinguo dei gradi per la fase successiva. L’Italia potrà svolgere un ruolo determinante assolutamente».

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