Esteri
Accordo USA-UK: i brexiteers esultano, l’economia un po’ meno
Di Marta Calderini
A fine luglio Stati Uniti e Regno Unito hanno annunciato un primo accordo commerciale formale dall’avvento dell’amministrazione Trump. Questo accordo è utile politicamente sia a Trump, sia a Starmer: al primo serve per sostenere che le numerose minacce sui dazi stanno iniziando a dare qualche risultato, mentre il secondo può rivendicare che il suo paese è stato il primo a trovare un accordo con l’amministrazione statunitense.
Nei contenuti, l’accordo è ancora parziale: prevede l’eliminazione dei dazi USA del 25 per cento su acciaio e alluminio britannici, la riduzione dal 25 al 10 per cento sul primo contingente annuo di 100mila auto, e l’abbassamento dal 5,1 all’1,8 per cento dei dazi britannici sulle merci statunitensi. Sono stati azzerati i dazi sull’etanolo e introdotto un contingente annuale di 13mila tonnellate di carne statunitense a dazio zero. Al di fuori di questi interventi, rimarrà comunque in vigore un dazio base del 10 per cento su tutte le importazioni statunitensi dal Regno Unito.
L’intesa ha scatenato l’euforia dei sostenitori della Brexit, che l’hanno celebrata come dimostrazione del successo della “libertà commerciale” conquistata con l’uscita dall’UE. L’ex ministro conservatore Kwasi Kwarteng, in un editoriale sul Telegraph, riferendosi al fatto che Bruxelles ha subito un dazio del 15 per cento, contro il 10 per cento imposto al Regno Unito, ha definito l’accordo la “più grande umiliazione dell’Unione Europea dalla Brexit”. Ha anche ripreso ironicamente le parole del primo ministro francese, che aveva parlato di “soumission”, interpretandole come eco storica della resa alla Germania nazista nel 1940. Ma questa retorica dimentica un dettaglio fondamentale: il Regno Unito commercia più del doppio con l’UE rispetto agli Stati Uniti. Come ha osservato l’economista John Springford del Centre for European Reform, la differenza di dazio tra il 10 e il 15 per cento rappresenta, nel migliore dei casi, “un errore di arrotondamento”, trascurabile rispetto al danno autoinflitto dalla Brexit.
Anche il nuovo accordo con l’India è stato presentato come una svolta, ma il suo impatto stimato sul PIL britannico è dello 0,13 per cento, poco più dell’accordo con l’Australia (0,08 per cento) o della bozza d’intesa con gli Stati Uniti (0,16 per cento), secondo le stime del Dipartimento per il Commercio Internazionale britannico riportate dal The Guardian. Inoltre, secondo l’Office for Budget Responsibility, il Regno Unito importa ed esporta il 15 per cento in meno rispetto a uno scenario in cui fosse rimasto nell’UE, con una perdita strutturale del 4 per cento di produttività.
A livello di effetti reali, l’esperienza del Regno Unito dopo il 2016 offre una chiave di lettura utile anche per interpretare il possibile impatto delle politiche tariffarie di Trump. Secondo un’analisi di Reuters, né la Brexit né l’annuncio dei dazi americani hanno causato una crisi economica o finanziaria immediata, ma entrambi hanno prodotto una “combustione lenta” di produttività e crescita. Dopo il referendum del 2016, il Regno Unito ha evitato la recessione fino al 2020, ma da allora l’economia è quasi stagnante, la Borsa londinese ha sottoperformato rispetto agli indici globali e l’impatto sull’export – in particolare verso l’UE – è stato significativo, con un calo del 13 per cento delle esportazioni verso il mercato unico dopo l’entrata in vigore delle nuove regole commerciali.
Nel frattempo, l’opinione pubblica britannica è profondamente cambiata. Secondo gli ultimi sondaggi YouGov, il 56 per cento dei cittadini ora ritiene che sia stato un errore lasciare l’Unione Europea e la maggioranza dei britannici attribuisce la responsabilità alla leadership conservatrice e a Nigel Farage. La narrativa brexiteer, però, non molla: ogni piccolo successo è amplificato per difendere la bontà della scelta, mentre i costi strutturali vengono sistematicamente minimizzati.
L’accordo con gli Stati Uniti, dunque, appare più come un gesto politico che un cambio di passo economico. Come già accaduto con la Brexit, l’assenza di un crollo immediato rischia di dare l’illusione che queste scelte siano sostenibili, mentre i danni si accumulano nel tempo. Il rischio è quello di confondere la resilienza con il successo, ma anche gli errori più ideologici, prima o poi, presentano il conto.





